Achille Bonito Oliva ci fa (ri)scoprire il genio della pop art Andy Warhol

Come Andy Warhol nessuno mai. E la mostra in corso a Milano, negli spazi della Fabbrica del Vapore, lo racconta in maniera straordinaria, complice la curatela di Achille Bonito Oliva, geniale nel predisporre, sala dopo sala, ben 300 opere del maestro della Pop Art realizzate tra gli anni Cinquanta e Ottanta, per un viaggio a colori fluo che difficilmente si dimentica.

Questa Andy Warhol. La pubblicità della forma (fino al 26 marzo) è la mostra perfetta per capire la complessità e l’originalità del Warhol-pensiero, notissimo per il celebre motto in the future everyone will be world-famous for 15 minutes, per cui ognuno si merita il suo quarto d’ora di celebrità, ma anche per molte altre intuizioni. La nostra comunicazione, oggi, le pubblicità, forse persino i social network non sarebbero gli stessi, se non ci fosse stato uno come Andy Warhol capace di apparire sulla scena internazionale e dettare legge “sul pubblico apparire”.

L’arte riproducibile all’infinito

Nel percorso della mostra, che si snoda sui due piani della Fabbrica del Vapore, seguiamo Warhol prima innamorarsi della fotografia di strada (del resto aveva iniziato a scattare immortalando gli incidenti stradali per la stampa locale), poi virare alla pura fase pop, quella delle serie più note (come il volto di Marylin Monroe o le zuppe Campbell’s Soup), per poi ritagliarsi pensose riflessioni sociali (sulla vita dei più emarginati) e afflati spirituali.

Andy Warhol’s Velvet Underground featuring Nico, 1970. LP originale autografato

Abituati a conoscere Warhol solo come l’anima della Factory che ha introdotto il concetto di opera d’arte in serie, infinitamente riproducibile e pubblicabile, questa mostra ce ne rivela tutta la densità. Lo ha ben spiegato Bonito Oliva: “Andy Warhol dà superficie ad ogni profondità: porta alla luce e all’evidenza di tutto ciò che sta sotto. È stato un vetrinista felice: pochi sanno che Warhol ha cominciato a lavorare come allestitore di vetrine. Ha imparato presto a esporre oggetti e cose all’occhio dello spettatore. Oltre che vetrinista, Warhol è anche un nichilista felice: non è un tipo problematico, ma affronta nella sua arte le conseguenze del consumismo della società americana della sua epoca. Opera sulla ripetizione e più volte ha detto: ‘Vorrei essere una macchina’ capace di ripetere all’infinito ciò che vede attorno a lui. In questo, potremmo quasi dire che Andy Warhol era un calvinista, ossessionato ‘dal fare le cose per bene’: le sue immagini ripetute e seriali nascondono questo desiderio di mettere in mostra il mondo e nascondere sé stesso“.

 Warhol è il Raffaello della società di massa

E ancora (sono sempre le parole di Bonito Oliva, perfette per “leggere” Warhol in modo più profondo): “Warhol è il Raffaello della società di massa americana che dà superficie ad ogni profondità dell’immagine rendendola in tal modo immediatamente fruibile, pronta al consumo come ogni prodotto che affolla il nostro vivere quotidiano. In tal modo sviluppa un’inedita classicità nella sua trasformazione estetica. Così la pubblicità della forma crea l’epifania, cioè l’apparizione, dell’immagine“.

Serigrafia su seta Untitled (Flowers), realizzata tra il 1983 e il 1985

Ed è proprio così: sono tutte epifanie, vere e proprie apparizioni, le opere coloratissime che via via ci appaiono davanti agli occhi nelle 13 sezioni della mostra.

Vediamo prima il giovane Warhol (classe ’49, all’anagrafe Andrew Warhola, il cognome è di origine slovacca) muoversi con sicurezza per le strade di New York dove intraprende una carriera di successo nel mondo della pubblicità.

Fin da subito capisce che un’immagine ripetuta più volte fino a diventare un oggetto in serie può trasformarsi in una comunicazione potentissima ed efficace. Applica presto l’intuizione di riuscite campagne pubblicitarie alla sfera dell’arte e nei primi anni Sessanta spopola con la serie delle Campbell’s Soup: in poco tempo tutte le celebrità dell’epoca vogliono passare dello studio della Factory e farsi ritrarre da Warhol con i colori fluorescenti e lo stile che abbiamo imparato a conoscere (e in mostra a Milano una corposa sezione è proprio dedicata alla ritrattistica).

I ritratti, dalle star agli emarginati

Decade dopo decade, il Warhol-pensiero diventa sempre più attento alla realtà circostante: negli anni Settanta l’artista si dedica al ritratto delle persone che vivono ai margini della società, persone appartenenti alle minoranze etniche o con orientamenti sessuali non tradizionali (lungo il percorso espositivo sono commoventi alcuni scatti dedicati alle drag queen, che si fidavano di Warhol e si mettevano in posa davanti al suo obbiettivo senza timore).

Ads Rebel Without A Cause (James Dean), serigrafia del 1985

Salendo al primo piano, troviamo la fase finale dei lavori degli anni Ottanta (Warhol muore infatti nell’ ’87) in cui, nel dilagare dell’epidemia dell’Aids e delle tossicodipendenze, con una numero sempre crescente di amici stroncati ancora in giovane età, Andy Warhol, il campione della Pop Art apparentemente superficiale e irriverente, vira verso un registro più saggio e pensoso.

Indaga in maniera originale il suo rapporto con l’Altro, riproponendo, in salsa pop, alcuni capolavori dell’arte rinascimentale, come la Sant’Apollonia di Piero della Francesca, che chiude in modo sublime questa corposa esposizione milanese.