Achille Lauro: eucarestia Queer

Da quando Achille Lauro ha scoperto il glam rock, affrancandosi dalla delinquenza patinata che alligna nei quartieri malfamati della musica trap, un certo pubblico ha trovato finalmente la sacra icona queer davanti alla cui luce espiare in ginocchio decenni di stereotipi di genere. E dire che la prima volta a Sanremo, nel 2019, Lauro si presenta al grande pubblico da anomalo, la mucca gialla in mezzo alla mandria grigia, i darkettoni di Tim Burton dentro un gangster movie di Howard Hawks.  L’eleganza criminale dei suoi outfit stilosi, il pallore cadaverico del viso mentre canta scazzato Rolls Royce strascicando i fonemi nei paraggi di Vasco Rossi, la pesante inflessione romanesca di un ragazzo di vita, il giro di basso rubato platealmente a 1979 degli Smashing Pumpkins: il suo freak show funziona ma col senno di poi gli è rimasto il colpo in canna, l’unico proiettile plausibile dentro un fucile a gommini.
Da quel primo exploit sanremese Achille ha cominciato a ricamare intorno al suo personaggio pizzi e merletti, colate di trucco come serigrafie di Warhol, liposuzioni in pelle brillantinata, tutine aderenti color carne, tacchi e plateau griffati. Al Sanremo successivo ha già ucciso il freak dentro di sé, ora veste i panni noiosamente provocatori della regina d’Inghilterra o della marchesa Casati. I giovani lo acclamano come il fustigatore della mascolinità, che in quanto tale è «tossica» d’ordinanza, la stampa lo celebra come il paladino italiano della rivoluzione gender fluid, quella sempre più vasta umanità che non si riconosce nei propri cromosomi e quindi ne attraversa le condizioni culturali. Achille ha fiutato lo spirito del tempo, lancia al popolo liberal le uniche brioches di cui ha ancora fame, e al terzo Sanremo di fila completa la mutazione. I suoi cinque quadri – ciascuno dedicato allo spirito di un genere musicale – sono omelie stucchevoli imbevute di moralismo civico. Una sera si traveste persino da idolo greco, ma non è né il Doriforo di Policleto né la Venere di Prassitele; sembra più una contraffazione di Luigi Ontani, perciò priva della venefica malizia dell’originale.

Achille è pesante, moralista come un prete controriformato, nell’arco di tre edizioni si è trasformato in un Marilyn Manson con l’ambizione, questa sì autenticamente satanica, di farsi amare; abbozza qualche timida blasfemia piangendo lacrime di sangue  – proprio quello che ci vuole per impressionare una società secolarizzata – e lì i suoi limiti affiorano impietosi: non ha la minima cognizione di chi siano Malcom McLaren, Guy Debord, Georges Bataille o Krzysztof Pomian, altrimenti saprebbe che non si può dissacrare quel che non è più parte del sacro recinto. Oggi nel recinto c’è piuttosto la linguistica dei pensieri inclusivi, il candore della società educante, la correttezza etica senza mai una vertigine estetica, mai un abisso: sono i motivi per cui Achille piace al suo pubblico, non più assiepato nel nulla generazionale (però vivo, tragicamente vivo) della trap – quel buco esistenziale riempito con soldi facili, festini a base di droga, donne chiamate cagne e malavita organizzata – ma ora capeggiato da menti aperte (e però morte, tragicamente morte) che hanno trovato in lui l’Ermes di un messaggio sociale scandaloso per la platea maschilista italiana.
La verità piuttosto è un’altra, è che Achille non scandalizza nessuno; la sua sola dote è la ruffianeria. Più il suo personaggio si immedesima nel reietto, nell’emarginato, più il pubblico lo applaude; in un delirio di vittimismo chiude uno dei suoi monologhi sanremesi con un  «Dio benedica gli incompresi» così patetico che verrebbe da consolarlo: ma quando mai, Achille bello, gli incompresi di qualsiasi ambito artistico sono stati coccolati quanto te? Quando Manet portava la pittura classica a puttane nel letto di Olympia si prendeva gli sputi dell’accademia, mica gli applausi; quando gli impressionisti lanciavano le prime molotov a colori contro le convenzioni artistiche del loro tempo, lo facevano dalla trincea del salone dei rifiutati, dei rifiuti, degli scarti.  Achille piace proprio perché, a differenza di come ama narrarsi, è tutt’altro che uno scarto: Gucci lo traveste da San Francesco, la Rizzoli gli ha già pubblicato due libri autobiografici (a meno di trent’anni, manco avesse avuto la giovinezza disperata di Lou Reed), Vanity Fair lo piazza tutto patinato sulle sue copertine.
Achille piace perché è letteralmente rassicurante. Rassicura il progressista che può sventolarlo contro gli stereotipi di genere e i tabù machisti, ma rassicura anche il conservatore, il buon padre di famiglia, perché in fondo è un bravo ragazzo che è riuscito a riscattare la condizione periferica di partenza.  Achille piace perché è vecchio, convenzionale, passato remoto, il tempo verbale preferito dal pubblico italiano abituato a perdonare tutto a un artista tranne l’originalità. Ecco che lo acclama per dei trucchi già visti prima e meglio nel Renato Zero di Zerofobia e Zerolandia; ecco che lo magnifica come se il suo travestitismo fosse l’ultima frontiera dell’estetica androgina quando in realtà ha almeno cent’anni, quelli più o meno trascorsi dalla Rrose Sélavy di Marcel Duchamp e dalla neutralità di genere di Claude Cahun.

Achille piace perché in fondo è innocuo, la sua teatralità esagerata ed effeminata non nuoce e non offende, non sovverte e non disgusta. Il camp a cui strizza l’occhio non indossa il gotico in calze a rete come il perturbante Tim Curry in Rocky Horror Picture Show, non esibisce la sconcezza sublime di Divine, la drag queen sovrappeso feticcio del regista John Waters. Quelli erano espressione di una controcultura che aveva i suoi film di riferimento, i suoi luoghi di ritrovo e la sua musica da ballare, prima la disco e successivamente la house. Facevano parte di un’avanguardia terrorista in cui il travestitismo, l’ambiguità di genere e la sessualità non binaria mettevano nel mirino le istituzioni borghesi per eccellenza, il matrimonio e la famiglia: non volevano allargarle o riformarle nel poliamore, volevano distruggerle. Erano i figli debosciati di Isidore Isou, l’uomo che negli anni Cinquanta aveva inventato i giovani come categoria non anagrafica, individuandoli in quei soggetti che si rifiutavano di sposarsi, trovarsi un lavoro e metter su famiglia, sottraendosi al processo produttivo e consumistico che proprio dalla retorica familistica veniva alimentato. Achille invece piace proprio perché, al contrario, vuole costruire, edificare, lavare le coscienze: apparentemente usa gli stessi codici queer ma ne cambia il valore simbolico; manda messaggi inclusivi e socialmente utili – quando poi, a dirla con David Lynch, se l’obiettivo è mandare un messaggio basterebbe recarsi alle poste – assecondando quella malattia tutta italiana dell’impegno.

Achille piace, infine e soprattutto, perché è mediocre. Al suo pubblico non interessa la musica che fa, non ha importanza se è rock, trap o glam perché lui non ha mica il talento di Ivan Cattaneo che, oltre il volto incipriato come una diva, il filo di rossetto sulle labbra, l’ombretto e l’eyeliner ad affusolare le ciglia, passava dalla sperimentazione prog con la PFM al cantautorato dal taglio art-rock raccontando di angeli sporchi in pantaloni attillati, divine regine di corpi disobbedienti e individui polisex.
Achille non esiste come musicista o cantante o performer nemmeno per il suo pubblico, anzi soprattutto per il suo pubblico. Esiste soltanto come metonimia che lo contiene: si acclama lui per acclamare la sempre più attuale questione di genere. La folla che lo segue non ha bisogno del suo talento, semmai ne abbia uno, o dei suoi dischi ma soltanto del suo corpo. Come la religione rivelata anche quella civile non può rinunciare all’eucarestia.