Antonio Spadaro e il presunto minimalismo di Carver

Ogni grande scrittore ricrea il mondo in base al proprio punto di vista. E se possiede realmente una maniera sua particolare di guardare le cose, riuscendo a darne espressione artistica, allora è uno scrittore che durerà per un pezzo.

Così scrive Raymond Carver in un saggio dedicato alla scrittura creativa (Il mestiere di scrivere, Einaudi).

Indicando la professione di Carver si è soliti specificare “scrittore”, o al limite “scrittore e poeta, docente e saggista”. Ma lui ne sarebbe rimasto deluso.

Il primo aspetto dell’attività, breve quanto intensa, dell’autore nato nel 1938 in Oregon è proprio il chiarire questo punto fondamentale: l’essere venuto al mondo della letteratura da poeta.

Aspira alla seguente iscrizione tombale:

Poeta, scrittore di racconti e, occasionalmente, saggista. In quest’ordine. (Antonio Spadaro, Creature di caldo sangue e nervi. La scrittura di Raymond Carver, Edizioni Ares)

Lo scorso anno è uscito un volume che indaga lo stile carveriano di scrittura, le origini della passione letteraria, la scoperta del peso delle parole e delle tecniche del loro bilanciamento nel corso di un racconto, poesia, saggio.

Il titolo del lavoro di Antonio Spadaro (sacerdote gesuita, saggista, teologo, docente universitario) risulta prossimo al senso della scrittura dell’autore statunitense: Creature di caldo sangue nervi.

Viene colta con questi tre termini la caratura tipica dello stile carveriano. I racconti sono vere e proprie istantanee. Non c’è alcun carico di sentimenti, sensazioni, avvenimenti a complicare trama e scrittura.

Al contrario, citando un articolo dedicato all’autore di Cattedrale, significativamente intitolato L’arte di togliere fino al midollo (R. Carbone, in L’Unità, quotidiano, 13 dicembre 1999) Spadaro ricorda come nel momento in cui l’emotività sembra prendere il sopravvento viene invece smorzata da Carver, riportando il plot alla quotidianità più ordinaria e grigia.

Non accade nulla di significativo; o così sembra. Mentre si descrive per cenni significanti quella che il critico indica come «vita descritta da rasoterra» (Spadaro, op. cit., p. 35).

L’asciutto si mischia al quotidiano e a sua volta al tragico conducendo il gioco con essenzialità di espressione.

Carver si pone criticamente agli autori dello sperimentalismo e del post modernismo – Thomas Pynchon, John Barth, Steven Barthelme, William Gaddis. Il suo procedere stringato e iper economico sul piano delle parole si fa quasi rivoluzionario dal profilo stilistico negli anni Settanta. Quando si affermano autori come Philip Roth; o proseguono una luminosa parabola altri come John Updike e Saul Bellow.

Per l’autore di Di cosa parliamo quando parliamo d’amore lo sperimentare rischia di concentrarsi solo sull’innovazione formale, finendo con uno scrivere sciatto e sciocco.

Nel ridurre all’essenziale si scorge il punto di arrivo fino a trenta riscritture (in genere mai meno di una decina. Ma per una poesia si arriva anche a quaranta rifacimenti.

La prima versione è solo un pallido scatto iniziale verso una trasformazione costante dell’ordito narrativo o lirico.

Jay McInerney, affermato autore minimalista e suo allievo negli anni Settanta racconta come sia arrivato a portare anche sette stesure al Carver docente di scrittura creativa alla Syracuse University di New York.

Si tratta di un work in progress, non certo di una posizione stabile.

I personaggi sono espressione di un’umanità ordinaria quanto dolente e senza storia, ma protagonista di un’epica quotidiana impercettibile e misteriosa, che si nasconde negli eventi minimi della nostra vita, che fanno da contorno o che sono essi stessi la vita.

Si pensi al racconto incluso in Cattedrale; poi trasposto con intensa efficacia da Robert Altman nel film America oggi (1991). In Una piccola, buona cosa si assiste alla persecuzione da parte di un fornaio contro una famiglia che gli ha ordinato una torta per il compleanno del figlio. Il ragazzino muore in un incidente e i genitori si dimenticano comprensibilmente dell’ordinazione. Ma quando il fornaio viene a sapere della tragica morte del destinatario del dolce ecco che scatta un impasto semplice, quotidiano di umanità e solidarietà. Carver descrive l’incrocio di sentimenti assai forti con il consueto linguaggio di uso comune. Quello che si può ben definire everyday language. Da maestro delle parole quale è spesso pone al centro dei propri racconti gli oggetti; con la loro forza e capacità di sovrastare i protagonisti umani. Fa pensare a un curioso e originale film, La sicurezza degli oggetti (2001), di Rose Troche con Glenn Close.

Il lavoro di padre Spadaro ha anche il merito di chiarire che il minimalismo e Carver stanno in due zone distinte della letteratura, dello stile, della riflessione sullo scrivere. Purtroppo è passata negli anni Ottanta questa equiparazione, favorita dalla vulgata che fossero tutti allievi suoi, da Susan Minot a Bret Easton Ellis, da David Leavitt a McInerney. Quando quest’ultimo è l’unico ex studente di Raymond Carver.

Osservazione condivisa, per esempio, da un’americanista del livello di Barbara Lanati; come si legge nell’Introduzione a Cattedrale (Mondadori, 1984, pp. V-XVIII).

Spadaro racconta come lo scrittore statunitense parla di mettere le parole giuste e al posto giusto, in modo tale che il lettore sia così coinvolto nella storia da non poter smettere di leggere. A meno che non gli vada a fuoco la casa.

Lui stesso si è sempre opposto alla definizione sbrigativa di “minimalista”. Con una sicurezza che ricorda le polemiche sull’etichetta di “strutturalista” che faceva infuriare Michel Foucault.

Un passaggio dal lavoro di Spadaro risulta illuminante; viene citata la seconda moglie e personaggio fondamentale nella vita di Carver, la scrittrice e studiosa Tess Gallagher:

preferisce dire che egli non era un «minimalista» ma un «purista» e anzi che il suo «mondo interiore» era, al contrario, «massimalista». Altri lo definiscono un «precisionista». E quest’ultima pare la definizione più pertinente.

L’occhio rivolto su persone comuni e oggetti quotidiani fa scaturire una verità sociale e individuale proprio dal lavoro di cesello e ripulitura da ogni superlfuo. Sull’unico piano che conti veramente per Carver: quello della cura delle parole.

Il volto degli Stati Uniti si scopre allora tanto vicino a quelli raffigurati dai grandi fotografi del Novecento in quel Paese. Un nome e un titolo vengono subito alla mente: Dorothea Lange e la sua foto Migrant Mother.