Black poetry: cosa resta di Kgositsile

«Corri negro! Corri come quando il negozio di liquori chiude ed è sabato sera. Corri negro, perché il tempo scorre! Corri come il tempo, senza mai cedere o perdonare». (Run, Nigger, Abiodun Oyewole)

Un minuto e undici secondi è il tempo impiegato il 14 agosto 2016 a Rio de Janeiro dal sudafricano Wayde van Niekerk per battere il record dei 400 piani, piegarsi un po’ sulle ginocchia e guardare quelli dietro con lo sguardo incredulo di chi non ha ancora realizzato di avere appena superato se stesso e il mondo intero. Poco più di un minuto è un tempo caro anche a Mike Tyson. Lo sa bene Eddie Richardson mentre prova inutilmente a rialzarsi sul ring il 13 novembre 1985 al Ramada Hotel di Houston. In un minuto e poco più puoi decollare come Wayde o schiantarti al suolo come Eddie. Solo Abiodun Oyewole, nato Charles Davis, fa entrambe le cose: spicca il volo e atterra in settantuno secondi. Tanto dura Run, Nigger. Tanto basta al giovane Abiodun per entrare nella storia e rimanerci da uomo invisibile. Uno spazio temporale in cui oggi, oltre cinquant’anni dopo, pochi rapper riuscirebbero a rientrare, vittime inconsapevoli della logorrea che affligge i fratelli afroamericani più o meno da sempre; quell’inclinazione a parlarsi addosso che Lars Von Trier sintetizza a mo’ di sindrome in Nymphomaniac con una threesome finita male. Il dono della sintesi è però degli ultimi poeti. Loro sono l’eccezione. E anche solo per questo meritano uno scanno a parte nell’Olimpo di Harlem. Il rap, o hip hop per chi ama i Public Enemy, deve infatti la sua esistenza a questi stravaganti agitatori di un movimento culturale che smarrita la sbornia hippie arriverà anni dopo nelle case dei newyorchesi come una pizza di Babbalucci. Sono loro i punk ante litteram che sguazzano lungo la Lenox Avenue predicando una pace impossibile, guidati da Jalal Mansur Nuriddin, il Muhammad Ali del rap, il paracadutista convertitosi all’Islam che dice no al Vietnam, «il negretto dietro al grilletto» di Kubrick che non vuole saperne di fare da canarino e che trova in Omar Ben Hassen e il sopracitato Abiodun Oyewole gli amici di cella con cui fuggire per davvero, leggendo le poesie di Keorapetse Kgositsile nell’ora d’aria, lontani da yankee, gringo e mangiaspaghetti. Tre ragazzi che lo zio Sam considera traditori. Tre hippie senza maggiolino e con il sorriso smagliante come la Bennett, la Grande Cometa del 1970. La parola dei Last Poets è una e trina, e l’espressione è quella genuina di chi non ha perso la bussola nel fumo della borghesia sessantottina. Alla porta non c’è nessun Timothy Leary che bussa sghignazzando, ma soltanto una lettera di Kgositsile: dice che non c’è più tempo da perdere, l’ultima ora della poesia è ormai giunta. Il sangue dal canto suo chiama e lo fa attraverso le mani di Nilaja Obabi, il percussionista spuntato dal nulla per ricordare ai tre lo spirito dei bambara e il profumo del caucciù di Bamako.

«Screwing your woman (Run, Niggers!)/ Whooping your ass (Run, Niggers!)/ Stealing your culture (Run, Niggers!)» . Sono versi che oggi manderebbero in tilt crociate di miopi con lo smartphone che illumina il cesso e vagine annebbiate dalla crisi di mezza età. Gli ultimi poeti sono i profeti dello slang e i fuochi d’artificio di On The Subway sono lì a dimostralo: «The new black man, let alone see us everyday, riding the subway, 8th ave, 7th ave, 6th ave, i-n-d, b-m-t, i-r-t, he still hasn’t dug me, he stares endlessly.» Nuriddin, Ben Assen, Oyewole e Obabi sono i guerrieri della notte di Sol Yurick, i «niggers scared of revolution», i fratelli a cappella che imboccano il primo vicolo cieco per scaldarsi intorno al bidone e allietare i passanti che inseguono l’inutile. L’avvento degli ultimi poeti nella storia della black culture segna un prima e un dopo. La rivoluzione lontana dagli schermi televisivi agitata da Gil Scott-Heron nella celebre The Revolution Will Not Be Televised raccoglie infatti i cocci di When The Revolution Comes dei Last Poets per farne immediatamente un nuovo mosaico. Surprises è al contrario un azzardo, l’ignaro futuro che incombe, il messaggio da tramandare ai posteri fregandosene del presente. C’è però una differenza riguardevole tra i seguaci di Kgositsile e buontemponi come Chuck D abituati a pisciare fuori dal vaso e a prendersela con il primo che passa: «Elvis era un eroe per molti – dirà l’MC dei Public Enemy – ma non ha mai significato un cazzo per me. Era uno stronzo razzista. Puro e semplice. Fanculo lui e John Wayne, perché sono nero e ne sono fiero.» È il distacco tra chi scava con le proprie mani e chi pensa al manicure. Il dramma è tutto qui. Anche nella storia del rap. E imperversa ancora oggi in quei circoli musicali che pretendono di sradicare il marcio partendo da un basso inquinato fino al midollo, globalizzato in ogni angolo. Una panacea da cui non se ne esce più, o quasi.

 

«Ricordati Poeta
Quando alcuni tuoi colleghi si riuniscono
Non parlano delle glorie del passato
O arrotolano la loro lingua
In banalità o deliranti parole idealiste
Sul cambiamento per caso o sulla bellezza
O sulla perversione che tu chiami amore
Che altro non è
Se non casuale accoppiamento di parassiti
I giovani il cui sguardo non riflette né giovinezza né paura
Gli operai il cui canto di pace
Ora scava le tombe per i mostri fascisti dalle croci dorate
Con precisione ed un intento da artisti
Sanno ora che il passato è tempestoso
Dobbiamo domarlo ora
Chiedi agli sguardi pieni di libertà
Dì a coloro che hanno orecchi per intendere, dì loro
Dì loro che il mio popolo è un giardino
Sorto dalle radici rancide del rapimento e delle rovine
Dì loro che alla stagione senza piogge
Le foglie seccheranno e cadranno fecondando il suolo
I cui fiori nuovi neri, verdi e gialli
Sono il canto di fede di un operaio
Alla terra che ti ha fatto nascere». 

(Keorapetse Kgositsile)

 

Rileggendo Kgositsile, il Pulitzer conferito a Kendrick Lamar nel 2018 acquista un valore diverso, e muta in uno stimmate mostrato ai quattro venti con mostruoso ritardo per rallegrare Obama e i Fazio. Non solo. Qualsiasi cosa dicano gli amanti delle mondane pitiche, certi contentini rappresentano in qualche modo anche il punto d’arrivo di un percorso ambiguo che ha reso possibile la spettacolarizzazione del ghetto a discapito del suo vero riscatto. Ma se negli Stati Uniti Kunta Kinte si fa groove e sale allegro come un bimbo gli scalini della Casa Bianca, nel Regno Unito Sofocle torna al centro di un dibattito in cui tutto è nuovamente messo in discussione, compresa l’esistenza stessa di un’unione politicamente spenta, senza per questo votare Farage o qualche sciame di insetti al di là delle Alpi. Quella strana arte chiamata spoken-word torna a ruggire attraverso giovani inglesi, francesi, tedeschi e talvolta italiani. Il Leone d’argento per il teatro alla biennale di Venezia assegnato a Kae Tempest nel 2021 definisce, in tal senso, la rinascita di un sottosuolo, o underground per dirla alla stregua di un esterofilo fuori tempo massimo, che dal cuore di Londra pompa e diffonde calore nel resto del continente.  È il passaggio di consegne che sorvola l’Atlantico, confermando, se ce ne fosse ancora il bisogno, che non è più una questione meramente cromatica, bensì umana. Tutto mentre il dualismo tra correnti per i puristi del flow continua in saecula saeculorum ad avere senso solo se riferito a East Coast e West Coast, zone d’ombra in cui risplende solo il retaggio di un’epoca estinta. Il fuoco è tra gli sguardi incazzati degli emarginati che vivono nei sobborghi della city. Nella patria di Teddy Roosevelt e Gil Scott-Heron non resta, ahinoi, che una poltiglia smembrata dalle iene dei canali a pagamento e data in pasto ai pesci che si dimenano nella rete da uomini di affari improvvisati come un goal di Riccardo Ferri. I bidoni rovesciati di Harlem non bruciano più da una vita. I fratelli a cappella invecchiano e ai vagabondi più anziani, pardon clochard, mancano come il pane e una bottiglia di whisky i cori apostolici che dalla Lenox Avenue salivano fino al cielo. Oggi da quelle parti il rap degli ultimi poeti è un cimelio caro ai nichilisti, ai brontosauri, ai boomer. E mentre i fatti di Minneapolis suggeriscono al resto del pianeta che il rogo in America non è mai stato spento e che il vento soffierà sempre sugli stessi tocchi, i rapper più in vista che tanto amano definirsi ribelli e poeti, perché rap vuol dire soprattutto rhythm and poetry, restano con il cerino in mano, alla porta come Timothy Leary ma senza la buonafede che lo animava; a debita distanza da tutto e tutti, con lo sguardo scemo nei fuoristrada truccati. Che siano i tunisini a immischiarsi in queste beghe. Che siano quelli come Redstar Radi a raccogliere i gelsomini. Nel 2021 il patto tra Thomas Sankara e milioni di alberi è l’esempio che tirano fuori solo i vecchi al saloon della 116esima Strada, gli universitari in velluto con la forfora che scende sulle spalle come la neve. E così, l’alba di Keorapetse Kgositsile non ha più ammiratori tra gli epigoni degli ultimi poeti. Non c’è più dumèla, il buongiorno in lingua sotho caro al poeta costretto all’esilio nel 1961. L’umanità a stelle e strisce rappa male la sua ultima era e balla intorno ai suoi cadaveri. La protesta non suona più e a cantarla con la passione di chi pesca ancora l’acqua dal pozzo sono i fratelli sparsi da qualche parte tra il Maghreb e il Sahel. Saranno loro a fruire della «nuova era». Gli uomini cari a Kgositsile che qualcuno un giorno ricorderà ancora una volta, magari seduto dietro ad un’altra scrivania, o sul bagnasciuga di un nuovo atollo immaginario.