Bob Dylan ’66, l’artista del trapezio

La poesia si forma in bocca. Bob Dylan lo scoprì come l’uomo primitivo scoprì il fuoco, e il fuoco nel suo caso portava il suono di una chitarra elettrica. Era la Fender Stratocaster che imbracciò sul palco del Newport Folk Festival il 25 luglio del 1965, esordendo davanti a un pubblico sconcertato con una versione incendiaria di Maggie’s Farm. Quelli si erano preparati ad accogliere il nuovo Woody Guthrie e invece si ritrovarono ai piedi di un Buddy Holly ancora più acido e incarognito. Dylan non era più l’eroe della protesta folk che due anni prima aveva cantato Blowin’ In The Wind con Joan Baez incantando la platea? Non era più il contestatore sociale che vituperava i signori della guerra? La risposta volava ancora nel vento e lui stavolta l’aveva lasciata andare.

In quel 1965 Dylan diventa lui stesso vento, vibrazione risuonante, sensazione sonora. Tutta la sua storia da quel momento è storia fonetica, ricerca del suono-parola atto a creare l’immagine, evocare la visione. Dylan si disimpegna, non nel senso che non tratterà più i temi del conformismo, dei pregiudizi razziali, della guerra, piuttosto li interiorizzerà senza farne però strumenti di denuncia, eruttando parole come vomito, cascate laviche di assonanze e ritmi. Dylan smette di essere menestrello e diventa scrittore, «artista del trapezio» come si definisce in un’intervista: distende le parti del discorso fin dentro il flusso di coscienza, piroetta impunito sulla punteggiatura, contrae la sintassi,  taglia e cuce periodi come nel cut up di Burroughs e, a cavallo tra il 1965 e il 1966, porta a termine Tarantula, romanzo del caos originario, lotta intestina dell’artista per ricavare una forma che la pagina fa fatica a tenere ma che la lingua può benissimo pronunciare.

Tarantula è l’opera di uno scrittore che non scrive: legge direttamente dalla propria bocca e perciò non ha necessità di coerenza sintattica, correttezza ortografica né ordine costruito. Dylan giustappone onirisimi e allusioni, figure retoriche e simbolismi in 47 capitoli abitati da personaggi che si trovano lì dentro per caso, senza avere nessun senso se non il senso di poter essere detti. Aretha Franklin e Omero, Abramo e Monna Lisa, Jack London e Groucho Marx e persino Gesù Cristo non recitano una parte in una storia; sono nomi che aprono frasi, versi che spalancano finestre sull’inconscio e sul rimosso, mondi creati dal suono che li pronuncia, possibilità di associazioni, epifanie negli occhi di chi legge, nelle orecchie che ascoltano le parole suonare l’una insieme all’altra, l’una contro l’altra. Tarantula, in questo senso, è un manuale di armonia sebbene non serva a scrivere canzoni.

Dylan lo sa, la canzone a differenza della poesia ha bisogno di una forma musicale. Contro la forma-canzone il testo può spingere, sbattere, forzare le maglie della metrica, storcere le gabbie del discorso, ma da lei non può mai davvero evadere. Finché continua a scrivere canzoni, Dylan è consapevole di non poter essere poeta, però sa pure che «non devi necessariamente scrivere per essere un poeta. Alcune persone che lavorano nelle stazioni di carburante sono poeti», e siccome «la poesia si crea da sé la propria forma», allora comincia a dilatare quella delle canzoni per fare in modo che la musicalità esca prima dalle sue parole, dalla sua lingua, dalla sua voce, e poi, solo poi, dagli strumenti musicali che lo accompagnano, perché «quello che succede sono le parole». Quelle di Tarantula ma anche quelle di alcune canzoni che, sull’onda della sperimentazione di quel romanzo, Dylan scrive in meno di due anni. Sono canzoni-poema contenute nel sacro trittico di quei quindici mesi che cambiano per sempre la storia di Dylan e quella della popular music tutta: Bringing It All Back Home e Highway 61 Reviseted – entrambi del 1965 – e Blonde On Blonde del 1966.

Subterrenean Homesick Blues conserva ancora la forma del blues elettrico, ma le parole sono un diluvio fonetico, un vomito di consonanze repentine, quasi senza respiro, dentro un pastiche che prende le sincopi declamatorie di Too Much Monkey Business di Chuck Berry e le incolla al ritmo beat della poesia di Kerouac e Ferlinghetti; Bob Dylan 115th Dream fin dal titolo percorre la strada del surrealismo, associando liberamente episodi onirici – che come nei sogni sono al tempo stesso interconnessi e assolutamente dissociati l’un l’altro – circa la nave dei padri pellegrini, la Mayflower, su cui la voce narrante incontra un certo capitano Arab, trasfigurazione per assonanza dell’Achab di Melville. Ma se in Bringing It All Back Home Dylan si allena al trapezio, è soltanto in Highway 61 Revisited a salirci davvero. Ballad Of A Thin Man è la prima grande visione dylaniana sacramentata nel dialogo tra un piano dall’incedere pericolante e l’organo elettrico di Al Kooper, una canzone di protesta  che non dice la sua protesta, rimane enigma nel personaggio velato di Mr. Jones, archetipo di un mondo vecchio che sta per essere spazzato via da qualcos’altro di elettrizzante in un’atmosfera ambigua e sinistra: «Qualcosa sta succedendo qui ma tu non sai cos’è, vero Mr. Jones?»; Desolation Row è La strada di Fellini in un’edizione pocket del grande romanzo americano, una parata di uomini e topi, saltimbanchi girovaghi di epoche storiche e crocevia immaginari dove Einstein si traveste da Robin Hood e tutti fanno l’amore tranne Caino, Abele e il Gobbo di Notre Dame senza che niente accada davvero, nessuna storia da raccontare: solo piani sequenza da mondi fantastici che somigliano all’Ottava strada di Manhattan con le sue puttane e i suoi barboni.

Dylan ormai volteggia sul trapezio, ma il suo esercizio è già volo. Blonde On Blonde è quel volo, la vertigine ermetica e mistica in cui appaiono i fantasmi elettrici di Visions Of Johanna come emanazioni di inconscio, fratture semantiche, immagini-suono incantatrici di serpenti e di realtà che translitterano il cognome di sua moglie Sara Lownds nella lingua delle Lowlands. Basta il suono di una parola, il suo potere di estensione, evocazione, associazione, a manifestare la visione della Signora delle pianure dagli occhi tristi, tutto un mondo nel quale una singola donna è l’assoluto femminile con le sue lenzuola di metallo e le bocca di mercurio, e carne come seta e viso come vetro, e occhi come fumo e preghiere:

Signora delle pianure dagli occhi tristi         
dove il profeta dagli occhi tristi dice che nessun uomo giunge  
i miei occhi di magazzino, i miei tamburi arabi,      
li lascio alla tua porta     
o, signora dagli occhi tristi, devo aspettare?

Il significato è nel suono delle parole stesse, le immagini e le visioni che esso suscita. È questa la vera forza poetica di Dylan, non la denuncia. È l’annuncio. Di una nuova letteratura e di un nuovo mondo che quella letteratura rende possibile.
Gliel’hanno dato cinquant’anni dopo, il Nobel, ma Dylan l’aveva già vinto quando sputò dalla bocca Sad-Eyed Lady Of The Lowlands.