Dostoevskij: il giocatore che puntava su Dio

Ci sono scrittori che per una singolare disposizione del fato diventano immortali grazie a una frase. Non importa se l’abbiano scritta o soltanto proferita. Altri sono tali per le loro opere. Per Fëdor Michajlovič Dostoevskij, di cui quest’anno cade il duecentesimo anniversario della nascita e il centoquarantesimo della morte (1821-1881), c’è soltanto l’imbarazzo della scelta. Sarà ricordato per I fratelli Karamazov o per il Diario di uno scrittore o per I demoni o per quello che i posteri decideranno. Ma Fëdor Michajlovič potrebbe essere accolto tra gli eterni soltanto per una frase da lui lasciata in uno dei suoi libri o semplicemente affidata a una lettera.

Che cosa ha di magico la sua scrittura, sovente non curata, il più delle volte vergata in fretta per il disperato bisogno di denaro? Una vera risposta non c’è; o meglio, ce ne sono infinite e in esse è impossibile districarsi. Possiamo semplicemente dire che il suo lascito letterario pone domande che sono ancora senza una risposta, simili alle questioni urlate da Friedrich Nietzsche. Non che i due la pensassero allo stesso modo, anzi. Dostoevskij teneva sul comodino la Filocalia, l’opera della preghiera ininterrotta cara ai mistici russi; Nietzsche, in calce a L’Anticristo, scrisse una legge contro il cristianesimo, da lui considerata una religione che predica la sozzura morale. I due, tuttavia, anche se non si sono mai incontrati, s’intesero idealmente su cosa fosse il centro del pensiero, cioè Dio. Da Lui – accettato o rifiutato ­– dipendono morali e rivelazioni, leggi e speranze. Per lo scrittore russo è un Dio che s’incarna e che oggi incontrerebbe soltanto difficoltà nel compiere questo estremo atto d’amore, come spiega la Leggenda del Grande Inquisitore che si legge ne I fratelli Karamazov; per il filosofo tedesco quel Dio è morto e la morale ha smarrito senso e valore, e con essa la storia. Antitetici? Certamente, ma avrebbero potuto abbracciarsi anche dopo un breve incontro, quasi costretti dalla stima reciproca. Non a caso le biografie dettagliate di Nietzsche registrano una sua visita in una libreria di Nizza, avvenuta in un anno successivo la morte di Dostoevskij. Dopo aver afferrato un libro di Fëdor Michajlovič, Friedrich avrebbe esclamato: «La voce del sangue!».

Ma, per tornare alla frase celebre di Dostoevskij, sovente trasformata in un luogo comune, occorre riaprire il romanzo L’idiota, finito a Firenze nel gennaio 1869. La ricordiamo: «La bellezza salverà il mondo». Non è esagerato scrivere che si ripete da allora, anche se il suo significato non è quello comunemente creduto. Un libro del filosofo bulgaro Cvetan Todorov è stato tradotto titolandolo con questa frase, anche se in originale suonava Les Aventuriers de l’absolu e prendeva in considerazione personaggi quali Wilde, Rilke, Cvetaeva.

Innanzitutto rileggiamo quelle parole in russo: «Mir spasët krasotà». E qui cominciano i problemi. «Mir» si può tradurre sia con «mondo», sia con «pace». «Krasotà», invece, è una bellezza – al pari dell’aggettivo «krasivyi», «bello» – che esula dai significati oggi utilizzati, soprattutto nell’ambito della comunicazione rapida o dei talk show. E inoltre la frase è costruita con un’inversione dell’ordine di oggetto e soggetto, quella che i grammatici chiamano anastrofe. Si potrebbe anche tradurre «Il mondo salverà la bellezza»?. Conviene chiedere aiuto a Dostoevskij stesso. In una lettera a Sonija Ivanova, sua nipote, confida: «L’idea centrale del romanzo è di descrivere un uomo assolutamente buono»; una specie di Gesù del XIX secolo, aggiungiamo. Precisa Fëdor Michajlovič: «Nulla v’è di più difficile al mondo, specialmente ai nostri giorni». A tali parole segue una frase rivelatrice: «Tutti gli scrittori che hanno cercato di rappresentare il bello assoluto, hanno fallito sempre, perché è compito impossibile. Il bello è l’ideale; e l’ideale, sia da noi, sia nell’Europa civilizzata, è ancora lontano dall’essersi cristallizzato».

Vi è di più. Dostoevskij fa dire a Dmitrij o Mitja, il primogenito de I fratelli Karamazov che odia il padre: «La bellezza è una cosa tremenda, orribile. Non mi è possibile sopportare che un uomo dal cuore nobile e dall’ingegno elevato inizi con l’ideale della Madonna per finire con quello di Sodoma. Ma la cosa terribile è che, portando nel suo cuore l’ideale di Sodoma, non rifiuti nemmeno quello della Madonna». Infine, un affondo, che ha le sue radici nella religiosità ortodossa: «Il cuore trova bellezza perfino nella vergogna».

In realtà si finisce in un labirinto e il protagonista del romanzo, il principe Miškin, quello che appunto incarna l’idiota, inteso in un senso opposto all’attuale (nella tradizione russa è da intendersi come “juròdivij”, il folle di Dio), proferisce queste parole rispondendo a Aglaja Ivanovna, una delle due protagoniste: “È difficile giudicare la bellezza, non mi sono ancora preparato. La bellezza è un enigma”. Poi un paradosso finale. La frase «La bellezza salverà il mondo» non è mai pronunciata direttamente dal principe Miškin, ma altri gliela fanno dire, come per esempio Ippòlit, che non esita a chiedere “quale bellezza”. Del resto, Dostoevskij non abbandonerà tale problematica, vero è che ne I demoni Pëtr Stepanovič Verchovenskij, creatore di una cellula terroristica, pronto all’assassinio, confonde il suo agire con l’amore per la bellezza.

Per questi e per altri motivi, mentre cerchiamo di capire una frase immortale, leggiamo con rispetto ma anche con doveroso distacco quanto Vladimir Nabokov, l’autore di Lolita, scrive nelle sue Lezioni di letteratura russa: «Dostoevskij non è un grande scrittore, è uno scrittore piuttosto mediocre, con lampi di humour eccellente ma, ahimè, inframmezzato da desolate distese di banalità letterarie». Preferiamo, dati i tormenti posti e rinnovati senza requie, tentare di definirlo con il titolo di un saggio del critico e sociologo Nikolaj Konstantinovič Michajlovskij, uscito nel 1882: Žestokij talant, Un ingegno crudele.

 Inseguendo una frase siamo entrati nelle pagine dei romanzi del magnifico russo. Ora, anche se in Italia la collezione di classici della letteratura più nota e diffusa (i “Meridiani” di Mondadori) non ospita nemmeno un titolo di Dostoevskij, al contrario di quanto avviene nel resto del mondo, bisogna ammettere che le questioni poste da questo scrittore sono intramontabili. I critici possono analizzarlo assecondando le tendenze, di certo   Ettore Lo Gatto invitava a riflettere sugli ultimi tre romanzi, ovvero I demoni, L’adolescente e I fratelli Karamazov, nel loro complesso una sorta di trilogia. E questo anche se non furono concepiti come tali, ma la loro realizzazione avvenne quando lo scrittore aveva già pensato di dar vita a “un enorme romanzo” religioso-filosofico di cui essi riflettono emozioni e idee. La grande opera, mai suggellata, avrebbe dovuto titolarsi in un primo tempo L’ateo, in seguito La vita di un grande peccatore. Questo libro, o summa letteraria, si sarebbe mosso, come l’azione dei tre romanzi pubblicati, intorno al problema – fondamentale, ripetiamo, per Dostoevskij – dell’esistenza di Dio. L’eroe sarebbe apparso ora ateo, ora credente, fanatico e settario. L’alterna vicenda si ritrova nei tre romanzi ricordati, con le vesti di protagonisti diversi; tuttavia l’unità ideologica è facilmente verificabile. Nei Karamazov, poi, raggiunge il culmine identificando il male con la negazione di Dio.

C’è anche la riflessione su Cristo che percorre le pagine di tale autore con una tensione che non ha uguali, anzi è unica. Abbiamo ricordato la Leggenda del Grande Inquisitore, ma tutto è riassunto in una lettera a Natal’ja D. Fonvizina (inizio 1854) con la forza dei mistici più intensi presenti nella Filocalia: «Se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è al di fuori della verità, e davvero la verità si trovasse fuori di Cristo, preferirei comunque rimanere con Cristo piuttosto che con la verità».

Morale: per Dostoevskij ogni logica che cerca di trovare una verità diventa superflua senza la rivelazione.