Dylan e l’incubo mistico degli anni Ottanta

Sorrisi, baci e abbracci negli studi Lion Share Recording il 22 gennaio 1985. La partecipazione è tanta e l’entusiasmo alle stelle. Il padrone di casa Kenny Rogers è al settimo cielo. Ma Quincy Jones è all’ottavo. L’arrangiatore per antonomasia e il produttore per eccellenza rimbalzano come una pallina pazza da un angolo all’altro della stanza. Del resto, anche per uno come lui non capita certo tutti i giorni ritrovarsi sotto lo stesso tetto con Michael Jackson, Stevie Wonder, Diana Ross, Ray Charles, Tina Turner, Cyndi Lauper, Billy Joel, Bruce Springsteen, Lionel Richie e Dionne Warwick, giusto per citarne alcuni. Si fanno chiamare USA for Africa, dove USA sta furbamente per United Support Artists, e sono un super collettivo formato da ben 45 celebrità della musica e riunitosi a Los Angeles per incidere We Are The World, singolo scritto da Jackson e Richie, il cui ricavato – oltre 100 milioni di dollari – sarà interamente devoluto al popolo etiope. La causa è dunque di quelle nobili e segue il solco tracciato da Bob Geldof l’anno prima con lo storico Live Aid a Wembley. Il mondo della musica vive il suo primo grande amplesso nel nome della beneficenza. Intanto, in sala Diana e Dionne ridono a crepapelle mentre Lionel dirige l’orchestra con il sorriso a 32 denti o forse più. C’è soltanto un problema. Un grosso problema.  E lo scatena l’unico tra i 45 che incute timore.

Il solo che può definirsi Messia senza peccare di blasfemia. L’armonia tra i conviviali è improvvisamente rasa al suolo da un mugugno che striscia come una biscia lungo i timpani. Il Messia starnutisce, si finge interessato ma continua a fissare il testo con lo sguardo assente di chi è altrove con la mente e anche con lo spirito santo. Quando arriva il suo turno, tutti ascoltano in silenzio; solo il vecchio Quincy osa avvicinarsi fisicamente a lui dispensando un «Bobby, tutto ok?» alla stregua del saggio che ha ben chiara la faccenda e che quindi non teme giudizio. Pochi al mondo possono chiamarlo così, mentre quasi nessuno può interromperlo mentre canta. Bobby è seccato e le cose non vanno affatto bene; deve intonare solo poche battute: «There’s a choice we’re making / We’re saving our own lives / It’s true we’ll make a better day / Just you and me», ma continua a essere nervoso, freddo come un ghiacciolo davanti al microfono, spazientito all’idea di cantare quei versi così stucchevoli, demagogici, buoni per tutte le stagioni; prova così un paio di volte a venirne a capo e non gli riesce. A Quincy però piace: «Sembra quasi la versione finale, Bobby, il che è incredibile – esclama – visto che un minuto fa sembrava che tu stessi soffiando bolle sott’acqua! Cosa è successo? Ti allontani da Stevie e all’improvviso diventi di nuovo sordo? Coraggio, amico. Devi aumentare quella fiducia».

Bobby ritenta ma con risultati talmente vacui da scatenare l’ironia di Lionel Richie, che entra in scena coi suoi pantaloni lucidi color rame: «Uh, oh, Bob: hai appena emesso alcuni suoni pessimi. Finisci tutto, amico. Ho sentito che potrebbero dare il tuo assolo a Dan Aykroyd se continui così». Sono le ultime parole di Lionel prima che Bobby interrompesse tutto e tutti con un «Chi diavolo sei?» a mezza via tra il serio e il faceto.  La musica si ferma, mentre Bobby prosegue stizzito: «Ugh! Almeno sa che quello che esce dalla sua bocca non va bene. Sarebbe molto imbarazzante se Quincy e la band dovessero fingere che sia tutto fenomenale. Dov’è Michael? (Jackson, ndr)». Solo allora il vecchio Quincy si avvicina al caro Bobby nel tentativo di liberarlo definitivamente da un peso sempre più insostenibile: «Stai davanti al microfono in quel modo, Bobby, è bellissimo. E sai cosa è carino, amico? Tu che canti insieme al ritornello in quel modo. È l’ultima volta che facciamo un’ottava del genere. La cosa che stavi facendo quando cantavi insieme al ritornello, We are the children, è carina, amico. Dai, ce l’hai fatta!». Il discorso d’incoraggiamento del marpione di Chicago sembra funzionare. Così un applauso irrompe di scatto nella stanza: tutti sono di nuovo felici perché Bob Dylan ha finalmente capito la sua parte. Richie quasi stenta a crederci: «Uh, oh, va bene – afferma – ma abbiamo nuovi guai in Paradiso. Bob ora deve cantare il ritornello. Quincy, rimettiti le scarpe. Potremmo aver bisogno di un secondo discorso di incoraggiamento. Ma soprattutto: dov’è Michael?».

I dialoghi registrati durante l’incisione di We Are The World dicono tutto o quasi dell’umore di Bob Dylan in quegli anni. Uno stato d’animo afflitto, spaesato. Dylan non è infatti un tipo da feste e festicciole; detesta apparenze, spalline e paillettes. Dylan è uno di quelli che a Beethoven e Sinatra preferiscono comunque l’insalata, ma a differenza di Franco Battiato non vuole proprio saperne di mescolarsi con il pop da classifica. Per Dylan gli anni 80 sono un incubo, una via crucis che trova la sua ragion d’essere solo nel momento alquanto topico vissuto per cinque lunghissimi anni dal cantautore di Duluth, che rimane colto da un’illuminazione religiosa prima che borchie, orpelli e lustrini entrassero a gamba tesa nella sua carriera. Accade tutto in una notte del 1978: «Verso la fine di un concerto – dirà – qualcuno in mezzo al pubblico si rese conto che non stavo troppo bene. Penso che fosse una cosa evidente, del resto. A un certo punto qualcuno gettò una croce d’argento sul palco. Di solito non raccolgo le cose che mi vengono lanciate, ma quella volta guardai la croce e dissi a me stesso: devo raccoglierla. Così feci e me la misi in tasca. Avevo bisogno di qualcosa, senza sapere che cosa. Avevo provato di tutto e pensai che avevo bisogno di qualcosa che non avevo mai provato prima. Mi guardai in tasca e ci trovai quella croce». È una piccola croce d’argento da cui non si separerà più; un segno divino caduto dal cielo che segna l’inizio di una redenzione da cui nasceranno gli album della cosiddetta conversione cristiana; opere mistiche in cui le palesi influenze gospel manderanno in frantumi le aspettative e le certezze di buona parte dei suoi fan, ma che al contempo apriranno le porte a tantissimi nuovi sostenitori di fede, guarda caso, cristiana; opere come Slow Training Come del 1979, Saved dell’anno dopo e a chiudere la triade Shot of Love del 1981; dischi in cui la parola di Dio per una volta tanto viene prima di quella di Bobby, produzioni talmente sorprendenti da lasciare impallidito in primis il produttore Jerry Wexler: «Non avevo idea che si fosse lasciato coinvolgere in questa storia dei Cristiani Rinati – dichiarerà – finché non cercò di coinvolgermi. Gli dissi: Guarda Bob, hai a che fare con un incallito ateo ebreo di sessantadue anni. Non c’è speranza per me. Limitiamoci a fare questo disco, va bene?». Ciò nonostante, Slow Train Coming resta uno dei maggiori successi commerciali di Dylan, con vendite addirittura superiori a capolavori del primo passato come Blonde on Blonde e Blood on the Tracks. L’Eva ammaliatrice nel caso specifico ha il nome di Mary Alice Artes, l’amica e fidanzata che suggerisce al vecchio Bobby di prendere confidenza con il movimento religioso ultra radicale, Vineyard Fellowship. Un incontro che Dylan definisce senza mezzi termini come «un’esperienza di rinascita, quando la gloria del Signore mi ha atterrato e mi ha raccolto». Parole impensabili nei vibranti anni 70, in cui la rivoluzione dylaniana passava soprattutto per il sound, da acustico ad elettrico, mentre i testi continuavano a mostrare a chiare lettere un’anima enigmatica, libertaria, espansa, fluttuante come poche altre e al di là di ogni confine imposto dalla società e dalle chiese. A rendere la metamorfosi ancora più surreale, è la risposta a Gotta Serve Somebody, il primo brano della conversione, che dà John Lennon con Serve Yourself, canzone scritta come parodia dell’improvvisa religiosità di Dylan: «La produzione di Jerry Wexler – racconta Lennon – è pessima, il cantato patetico, e il testo veramente imbarazzante». Ma per un John Lennon gnostico e irridente, c’è sempre un Nick Cave evangelico e folgorato sulla via di Damasco: «Mi trovavo in un bar – svelerà l’australiano – l’avevo ascoltata al jukebox e mi guardai in giro, domandandomi come mai le vite di tutti i presenti non fossero state immediatamente cambiate da quell’ascolto».

Il Dylan rinato nasconde però zone di luce caldissime. Non è soltanto l’uomo in preda a una crisi mistica di mezza età. I coretti gospel da contraltare all’organetto, il canto sofferto e il sound rhythm and blues fino al midollo sono il contorno ideale di una sterzata musicale imprevista e che sa anche ammaliare. Lo dimostrano le vendite alle stelle, ma non solo: forse il mondo stava solo aspettando che Dylan mostrasse il suo lato più invasato, dunque più fragile. La debolezza che trapela a mani bassi in questa sua rinascita religiosa è per certi aspetti anche la sua forza.  Il fanatismo al centro delle sue prediche, spesso propinate a fine concerto, mostrano un cantautore posseduto dal libro dell’apocalisse come Milingo da Maria Sung; un predicatore dozzinale ignaro della sua follia che, per dirla alla De André, si sente come Gesù nel tempio e dà buoni consigli. C’è però una netta differenza: Dylan non ha cattivi esempi da cui nascondersi; non ci sono scheletri nel suo armadio, giusto qualche figlio di troppo concepito in giro, qui e là con le sue tante amiche. Lo sa bene Carolyn Dennis, cantante, corista e sua sposa dal 1986 al 1992, che un bel giorno rivela: «Ho tre figli, ma non dirò quali sono di Bob Dylan. Lui ha otto o nove figli in tutto e non voglio fare speculazioni su questo». Lo sanno bene quelli del suo staff, costretti ad assecondare le sue visioni apostoliche che sommate agli spigoli del suo caratteraccio formano un nuovo mostro da combattere, un nuovo Dylan da affrontare ogni santo giorno. Bobby tuttavia rinnegherà implicitamente alcune di quelle canzoni, come la liberatoria Precious Angel che, stando alle parole rilasciate a Paul Zollo nel 1991, l’anno dell’uscita dal tunnel del fanatismo religioso e dell’incartamento della pratica di divorzio dalla Dennis, non ha più motivo di esistere e di essere suonata in pubblico: «Ci sono troppi versi e non ce ne sono abbastanza. […] Sono canzoni. Non sono scritte sulla pietra. Sono in plastica».

Con Saved Dylan raggiunge poi direttamente il Sinai, guarda Dio dritto negli occhi e chiede di essere salvato. L’apoteosi è lampante. Il maestro dispensa sermoni a destra e a manca. Ogni canzone è un inno alla fede cristiana. La copertina va addirittura oltre, ma per fortuna la mano di Dio che scende dal cielo per sfiorare quelle dei suoi fedeli sarà l’ultimo manifesto di una fase transitoria. Nel 1981, Shot Of Love metterà lentamente in disparte la verve spirituale di Dylan con canzoni tutt’altro che impegnate sul fronte religioso. Infidels nel 1983 farà ancora meglio, smarcandolo quasi totalmente dal delirio, grazie anche alla presenza di Mark Knopfler in cabina di regia. Tornano dunque la laicità e il Dylan di sempre. Ma resta, comunque sia, il peso di un’esperienza totalizzante per Zimmerman. Quattordici anni dopo, nel 1997, in un’intervista concessa a Newsweek a seguito di un problema cardiaco l’uomo getterà definitivamente la spugna, concedendo la vittoria al musicista: «Ecco come stanno le cose tra me e la religione. Questa è la pura verità: trovo la religiosità e la filosofia nella musica. Non la trovo da nessuna altra parte. Canzoni come Let Me Rest on a Peaceful Mountain o I Saw the Light: questa è la mia religione. Non aderisco a nessun rabbino, prete, evangelista. Ho imparato di più da queste canzoni che da qualsiasi altro tipo di entità. Le canzoni sono il mio lessico. Io credo nelle canzoni». Parole che chiudono il cerchio con quelle espresse nel 1983, a ridosso dell’uscita di Infidels: «Quel periodo in cui fui un Cristiano Rinato fu parte della mia esperienza di vita. Doveva accadere. Quando vengo coinvolto in qualcosa, vengo coinvolto in maniera totale, non marginale». E così il vecchio Bobby riprende confidenza con la realtà delle cose, con la vita di tutti i giorni di un’America in preda a un delirio ben più grande di quello appena vissuto: la mistica reaganiana a cui tutti sono assoggettati. Il Dio appena abbondato da Dylan non può infatti assolutamente nulla contro il Dio denaro. E per il cantautore che liberò le menti degli americani lasciando che rotolassero come pietre inizia una vera e propria lotta contro i mulini al vento. Il 13 luglio 1985, al climax del Live Aid tenutosi al JFK Stadium, Dylan tuona come ai tempi migliori, accompagnato da Keith Richards e Ron Wood mentre suona Hollis Brown prima di tirare fuori parole spiazzanti «Io spero che parte di questo denaro […] forse loro possono prenderne una parte, forse… uno o due milioni, forse… e usarli per pagare le ipoteche su alcune fattorie che i contadini devono pagare alle banche». I fan della primissima ora riconoscono subito il Messia; il musicista che osserva il mondo rurale e lo illumina con le sue canzoni. I piedi tornano dunque per terra, tra la gente comune, e lo testimonia anche l’incursione nel neonato movimento rap a stelle e strisce. Dylan duetta a sorpresa con il rapper Kurtis Blow in Street Rock, lasciando tutti nuovamente a bocca aperta. «Blow – confesserà in futuro – mi aveva aggiornato sul genere. Ice-T, Public Enemy, N.W.A., Run DMC: questa non era gente che andava in giro a darsi delle arie, erano tutti poeti e sapevano come stavano le cose». Al netto di queste folate, la confusione tornerà a farsi viva nel 1986 con la pubblicazione di un disco come Knocked Out Loaded, il primo a contenere addirittura tre cover e a non entrare in top 50 dai tempi di Freewheelin’. Una caduta che sarà anche cinematografica l’anno dopo nel film di Richard Marquand, Hearts of Fire, pellicola flop sia al botteghino che per la critica, in cui indossa i panni di una rockstar fallita e costretta a lavorare per un allevatore di pollame di nome Billy Parker. Momenti insoliti prima di tornare il gigante che tutti conosciamo in quel capolavoro che è Oh Mercy. Il disco miliare con il quale Dylan chiude il cerchio confuso degli Ottanta alla sua maniera, cantando in Ring Them Bells: «Il sole sta calando sulla vacca che è sacra». Una metafora che oggi, a ottant’anni dalla nascita del mito, suona tristemente attuale.