Emilio Salgari: ritratto del vento

Il mondo di Emilio Salgari è tutto quello che si può ancora immaginare. Il viaggio mancato al quale si rimane legati, è quello che poi l’ha portato in giro, davvero. E con lui, tutti noi. Il mondo apocrifo di Salgari era l’unione di universalismo e antimperialismo, che gli permette di essere moderno ancora oggi. Perché mai banale, mai tenero, mai ossequioso né sentimentale. Libero da confini: geografici e letterari. Quando uno scrittore crea dei personaggi che possono fare a meno di lui, è inutile chiedersi perché è ancora attuale, la sua modernità la raccontano quei personaggi che seguitano a vivere.

Lo scrittore messicano Paco Ignacio Taibo II (che fiero dichiara di aver letto 63 libri di Salgari) ha potuto risvegliare Sandokan e Yanez e dargli una nuova storia, una nuova parte dell’infinito mondo salgariano senza che il tempo scalfisse le tigri della Malesia. E noi possiamo immaginare i “verissimi” pirati somali come un suo prodotto e viceversa, o pensarlo a scrivere di un hacker, meno fighetto di Assange ma con la stessa voglia di vendetta del Corsaro Nero, che naviga in rete e rapina tesori. Perché le sue storie sono un forte desiderio d’essere quello che è mancato, che non è stato: non c’è normalità ma ricorso alla straordinarietà. Non aveva fame d’amore, per quello gli bastava Ida, ma aveva fame d’avventura, e se è vero che gli sarebbe piaciuto disegnare il vento, è perché sarebbe stato il suo ritratto, perché lui come il vento è passato e passa, portando a noi di tutto, e sempre d’inimmaginato. E ogni volta ci lascia con stupore e voglia di voltare pagina.

E l’elenco di quelli lasciati a bocca aperta è lunghissimo e parte da Che Guevara (che aveva letto 62 suoi libri) e si estende per tutto il continente sudamericano, non c’è uno scrittore di lingua spagnola che non l’abbia letto, e soprattutto ammirato. Basta un nome per tutti: Julio Cortázar. Il motivo principale è l’antimperialismo, l’assenza di razzismo, la lotta contro le oppressioni, e il profumo di libertà. Poi, ovvio, c’è il mistero di uno scrittore prolifico morto suicida e povero, impossibile non immedesimarsi, come difficile capire: non ha avuto nessun tempo per un diario o uno zibaldone, che ci permettesse di sapere cosa pensava fuori dal mondo immaginato, la vita è tutta riversata nei suoi romanzi, certo senza introspezione, solo evento, voglia di ribaltare il normale stato delle cose, dare credito al sogno, assecondarlo e farne ragione d’esistenza. Per questo si è tirato dietro generazioni di ragazzi.

E molto del fascino dei suoi libri è dovuto anche al fatto che Salgari non era per niente provinciale – oggi che gli scrittori italiani parlano solo di sé – aveva uno sguardo internazionale, con una passione per l’Oriente e l’oceano Indiano. Le sue pagine hanno cadenze da opera lirica (era stato critico teatrale), dove al posto della musica se la gioca con gli scenari esotici. I suoi teatri sono i mari. Anche se con un scenografia povera, possiamo dire che sta alla letteratura come Vittorio De Sica o Roberto Rossellini e il neorealismo al cinema. Insegna come si possa raccontare una storia con poco, anche se da strade diverse.

E la sua grandezza non è solo fantasia o ispirazione, la sua stanza torinese è servita da scudo a moltissimi scrittori che si rifiutavano di viaggiare, poi è arrivato Fernando Pessoa a giustificarli. Salgari, no, lui avrebbe voluto essere capitano e prendere il largo, si è dovuto accontentare di andare dalla Madonna del Pilone alla Biblioteca civica di Torino, a rovistare tra cartine geografiche, libri di storia e manuali di botanica e al ritorno, su un tram, mescolava: strade di Torino e quel poco di Adriatico navigato, prima di raggiungere il suo tavolo e farne una storia.

Salgari ha fatto dell’avventura una esigenza di pagina, si è ripreso la vita tempestosa che desiderava, non si è tenuto niente, per questo oggi viene ancora letto, ed è ancora amato. L’altra sua forza è l’aver creato storie a pezzi, un intricato sistema di rimando che gli permetteva di sfangarla facendosi pubblicare più puntate possibili dai giornali. Come Fëdor Dostoevskij era inseguito dai creditori, ma non giocava, aveva famiglia. E allora scriveva e scriveva e scriveva. Una infinità di storie di mare devono a lui l’ispirazione, su tutte, la saga del Gabbiere Maqroll di Álvaro Mutis.

Salgari è un Ettore sconfitto dall’editoria, famoso al suo tempo, ma non abbastanza da potersi concedere la serenità di scrivere quando gli andava e non a comando. Né da poter comprare una barca come Jules Verne, che era la sua versione intellettuale, e che oggi paga pegno, rispetto alla freschezza salgariana. Perché lui da rana di fosso s’era fatto delfino e talvolta anche pescecane. Arrangiandosi. Con l’orgoglio e la caparbietà di spadaccino, che sa che deve usare ogni mezzo ma non deve cadere.

Salgari aveva ingaggiato un duello con il suo tempo (non a caso l’Italia e gli italiani sono assenti dalle sue storie, fatta eccezioni per la Ventimiglia del Corsaro Nero) e con se stesso, convinto a dimostrarsi d’essere meglio di quello che il grigiore quotidiano offriva. E quando è saltato: aveva la stanchezza di un Buffalo Bill stufo d’esibirsi per la gloria, di ripetersi per portare a casa quel poco che bastava prima della prossima storia. Di ribellarsi in una nuova pagina, di scrivere il viaggio che non aveva fatto.