Falsa testimonianza di Karin Slaughter, un thriller da consumare entro la data di scadenza

Se ai tempi di Dante fosse esistito Netflix, qualche sceneggiatore (o regista, attore, attrice…) sarebbe finito all’Inferno?

Me lo sono chiesto leggendo l’ultimo romanzo di Karin Slaughter, Falsa testimonianza (HarperCollins, traduzione di Anna Ricci, uscito a fine settembre) pieno di riferimenti alla quotidianità spicciola e non. Il Covid in primis, con i protagonisti che indossano e disindossano mascherine tutto il tempo, ma anche brani rap e abbonamenti a servizi di streaming online (E proprio Netflix ha in cantiere una serie Tv tratta da Frammenti di lei, romanzo dell’autrice uscito nel 2018).

La risposta, indiretta, in realtà, me l’aveva già data Woody Allen in una delle scene più belle di Harry a pezzi: il protagonista in viaggio negli Inferi, incrocia un tipo dall’aria anonima e gli chiede: “Lei perché è qui?”. Risposta: “Ho inventato i serramenti in alluminio anodizzato”.

Quindi, sì, credo proprio che Dante, oggi, all’Inferno ci avrebbe fatto finire un bel numero di sceneggiatori, Tiktoker, stilisti, eccetera, eccetera.

Il dubbio mi si ripresenta ogni volta che mi capita di leggere un libro in cui ci sono riferimenti a un’attualità che rischia di essere sorpassata dalla storia nel giro di poco. Pensiamo a tutti quelli che hanno nominato un account Myspace qualche anno fa e a quelli che oggi parlano di Facebook.

Quello che non mi aspettavo, però, era di trovare, in un’intervista al termine del libro, la spiegazione della stessa autrice rispetto alla scelta di utilizzare tutti questi riferimenti a rischio obsolescenza precoce.

Un tempo non inserivo riferimenti alla cultura pop”, dice la Slaughter, aggiungendo di essersi accorta, romanzo dopo romanzo, che, nonostante gli sforzi, era impossibile evitare riferimenti che avrebbero collocato le storie in un preciso momento e che sarebbero suonati “vecchi” nel giro di pochi anni: dettagli “cui non avevo pensato, come un fax, un modello di auto, o qualcuno che ha bisogno di usare un telefono a gettoni”. E conclude: “Forse è diventato più importante con l’avanzare dell’età far sì che i miei libri rappresentino un fotogramma di com’era la vita nel momento particolare in cui sono stati scritti”.

Questa lunga premessa deriva dal fatto che ho sempre provato un istintivo fastidio per una certa scrittura americana, infarcita appunto di precisazioni tipo: la forma del colletto della camicia indossata dal killer (bottom up o bottom down), la marca di un dopobarba, un certo tipo di scarpe da ginnastica, specifiche sull’arredamento (il divano in alcantara color petrolio… sul serio?), robe del genere.

Fino al giorno in cui ho deciso di ricredermi e di prendere atto che si tratta di una questione di educazione letteraria: mi hanno cresciuta così, il che non significa che abbia ragione. Anzi, è assolutamente che plausibile che a essere nel giusto siano (anche) Karin Slaughter e gli autori di genere americani (Che tra l’altro ispirarono la stessa passione per i dettagli “inutili” all’unico italiano capace di superarli sul loro stesso terreno: Giorgio Faletti).

 

La copertina del nuovo romanzo di Karin Slaughter (HaperCollins)

Falsa testimonianza è un thrillerone. Protagoniste sono due sorelle, Callie e Leigh, il classico bruto – Buddy Waleski – che finisce ammazzato, e suo figlio che, molti anni dopo, torna nelle vesti di vendicatore psicopatico. Andrew Tenant, accusato di stupro, fa in modo che la sua difesa venga affidata a Leigh, nel frattempo diventata avvocata (mentre la sorella è una tossica alla deriva), una mossa che è anche il primo passo per attuare il suo piano. La donna, all’inizio inconsapevole di avere davanti a sé l’ex bambino cui lei e la sorella avevano fatto da babysitter, capisce nel giro di poche pagine con chi ha a che fare e il pericolo che si trova ad affrontare. Andrew ha chiaramente in mente l’idea di far fuori entrambe e magari pure qualcun altro (L’ex marito di Leigh? La figlia?). Un programmino che ha costruito nel tempo e per il quale si avvale dei nastri con la registrazione dell’omicidio di suo padre Buddy da parte delle due sorelle (all’epoca giovanissime).

 

Gli ingredienti della storia sono ricavati direttamente dalla cronaca: femminicidi, molestie sessuali, dipendenza da oppiacei e ritorno dell’eroina, revenge porn e dintorni, pedofilia, “gender fluidity”.

Tutti temi che possono far storcere il naso ai lettori più sofisticati.

Ma il punto è che Karin Slaughter non scrive per loro. Scrive, piuttosto, per lo stesso pubblico che compra i bestseller di James Patterson, Lee Child, che ha amato la serie Millenium di Stieg Larsson e così via.

La stessa Slaughter ha venduto circa 40 milioni di copie nel mondo (in oltre 100 Paesi e in 27 lingue) ed è finita in cima alla classifica del New York Times. E lo ha fatto aderendo ai meccanismi del thriller pop, con una costruzione narrativa che ti costringe a girare una pagina dopo l’altra anche quando provi una fitta di insofferenza per certi cliché o per l’utilizzo di escamotage come quello che chiameremo “il riepilogo dei fatti fin qui”, ovvero scambi di dialogo tra i personaggi che rifanno il punto di quanto accaduto nelle pagine precedenti ad uso di lettori distratti o con la memoria labile.

Insomma, quello che sto cercando di dire è che definire i suoi libri non abbastanza buoni (rispetto alla letteratura alta) è come sentenziare che Squid Game non è Bergam.

Un’ultima annotazione: sul profilo Instagram dell’autrice pullulano gattini (e di felini ce ne sono anche nelle pagine di Falsa testimonianza, più il personaggio di un anziano veterinario che è, forse, l’unico “eroe” positivo della storia).

A questo proposito, tornando da dove eravamo partiti, ci sarebbe da scommettere che Dante avrebbe messo all’Inferno pure loro. O, almeno, l’inventore del gatto Nyan, venduto qualche mese fa  in versione token non fungibile (NFT) per il corrispondente in criptovalute di 600mila dollari.