Giacomo Furia, il perdente del cinema italiano

Ci sono attori ai quali rischi sempre di fare un torto. In genere succede a quelli che chiamiamo, un po’ ingenerosamente, caratteristi. Dico ingenerosamente sapendo di mentire, perché con la commedia italiana i nostri grandi registi sono riusciti, grazie a sceneggiature straordinarie e una capacità incredibile di gestire il casting, a trasformare il caratterista in una figura di primo piano: si pensi a Tiberio Murgia, Ferribotte, prelevato da Monicelli in un locale nel centro di Roma e diventato una vera e propria icona, o a Carlo Pisacane, il nostro amatissimo Capannelle. A un bravo caratterista basta un solo film per entrare nelle nostre vite e non uscirne più: solo che c’è chi lo fa grazie a una sceneggiatura ben scritta e chi, invece, ci mette del suo, e ce ne mette parecchio. È il caso di Giacomo Furia, il vaso di coccio del cinema italiano. In soli due film (i suoi più riusciti, in oltre cento girati) riesce a definire per sempre il ritratto del perdente rassegnato come non è più riuscito a nessuno.

Ne L’oro di Napoli (Vittorio De Sica, 1954) è il buon pizzaiolo Rosario, ammogliato immeritatamente con Sofia Loren:

«Si erano sposati quattro anni prima. Fin da allora don Rosario tendeva alla pinguedine e alla pace. Lei si affezionò inspiegabilmente a quel largo petto bonario, a quei sorrisi devoti e lenti, a quell’inerme desiderio; (…) La notte, sul seno della moglie, si mise improvvisamente a piangere. «Ma che ti ho fatto?» lei gli diceva con materno compiacimento, e don Rosario dovette impedirle con la forza di rendersi conto, accendendo la luce, che era troppo bella per lui». (L’oro di Napoli, di Giuseppe Marotta, 1947)

E in questo ruolo Furia lascia trapelare il grande attore: certo, come racconta Marotta, non gli mancano i sorrisi devoti e lenti, non manca la pinguedine, ma lui ci mette una cosa: gli occhi. La mansuetudine del suo don Rosario è tutt’altro che rassegnazione alle corna, come potrebbe sembrare. C’è un momento, nel film, quando capisce che la moglie gli fa le corna con il guappesco don Alfredo, è soltanto un momento, ma c’è, eccome, in cui gli occhi gli si fanno neri e una nuvola violenta gli attraversa il viso paffuto. Marotta lo racconta così: «i cento chili di don Rosario vacillano sulle loro basi», ma Giacomo Furia è un attore di prim’ordine, e riesce a farlo vedere solo con il volto in pochi secondi. Il don Rosario di Marotta sa che la moglie lo tradisce perché riceve da sempre lettere anonime, e perché certe cose le sai, se solo le vuoi sapere. Ma in un libro è più facile raccontarle, queste cose: a Furia basta quello sguardo lì, in quel momento lì. È il momento in cui ci fa vedere che don Rosario sceglie: potrebbe uccidere l’amante della moglie di fronte al vicolo tutto e cacciare la svergognata o rassegnarsi a una vita di corna private e pubblico dileggio – una vita difficile ma decente. E lì lui e De Sica scelgono, in linea con Marotta, la seconda, nella scena seguente, con lui che caracolla docile dietro a una Loren zompettante. È in quel momento che Furia diventa il perdente per antonomasia del nostro cinema. In quello stesso film De Sica, Stoppa, Totò, Eduardo, senza contare una magnifica e dolente Silvana Mangano, offrono delle prove d’attore mastodontiche, ma secondo me Furia è al loro livello, solo che ci arriva con meno tempo e con un ruolo meno importante: quello del vaso di coccio, appunto.

«- No no, io non ci sto, non ci sto e non ci sto! Io la notte voglio dormire, non voglio essere roso dai morsi della coscienza.

– Allora volete essere roso dai morsi della fame? E l’intimo di sfratto, eh?

– Cardone, l’intimo, non vi rode?»

(La banda degli onesti, Camillo Mastrocinque, 1956, sceneggiatura di Age e Scarpelli)

È col personaggio di Cardone, il «Pinturicchio prima maniera», il pittore spiantato che Totò e Peppino chiamano a far parte della loro banda di falsari che Giacomo Furia entra nella storia del cinema italiano per non uscirne più. Il suo Cardone è ovviamente schiacciato dai due poderosi vasi di ferro, ma non perché sia meno bravo, anzi. Lui qualche battuta la appoggia pure, ma non fa il cameriere. Mentre Peppino e Totò titubano di fronte all’ipotesi di reato, è il solo Cardone a porsi problemi di coscienza reali: per esempio, «mammina, e se lo viene a sapere?» Cardone è l’unico a dire «ma è peccato! Peccato mortale!» Ha degli scrupoli, non è soltanto pavido. Condivide il destino degli onesti, quelli veri. Come don Rosario, ha scelto di subire una vita di soprusi, è l’acqua cheta che sa è meglio restare cheta. Quando Totò gli porta l’intimo di sfratto, lui risponde «don Anto’, se fate così mi mortificate!», perché alla miseria, al rimanere senza un tetto è rassegnato: alla mortificazione, alla perdita di dignità, no. E quando, finalmente convinto a falsificare le diecimila lire, Peppino dichiara di volere, coi primi guadagni fraudolenti, andare a giocare a Montecarlo e Totò sogna un guardaroba completo di «cocomeri, quello coi calamari», il povero Cardone dice di voler portare mammina a Gerusalemme: è l’unico dei tre che non pensa solo a sé stesso. Il Cardone di Furia è un vinto, uno che sogna soltanto che il mondo non gli faccia troppo male. Dopo di lui soltanto Renato Scarpa, prima con Sergio in Un sacco bello! (Carlo Verdone, 1980) e poi con Robertino in Ricomincio da tre (Massimo Troisi, 1981), solo che Sergio ha moglie e tenta l’adulterio all’estero in compagnia di Enzo il coatto, e Robertino, succube della madre pazza, «tiene un’orchestra sana in capa».

Cardone invece è un bambino cresciuto a zupponi di latte, non ha moglie, e mammina non lo tiene chiuso in casa: anzi, lui si arrabatta, va a dipingere cannoli sulle vetrine della pasticceria di piazza Gimma pur di fare due lire, che comunque non bastano mai.

Giacomo Furia, alias don Rosario, alias Cardone, è quello che ci vergogniamo ad ammettere di essere. E siamo fessi, perché c’è più dignità in loro che in molti di noi.