Giuliano Scabia, stare nella voce

Caro Giuliano, potresti parlarmi della tua famiglia d’origine, dei tuoi genitori?

«Mia madre Delia, padovana, era una donna gentilissima, casalinga. Da giovane era stata commessa alla Rinascente. Figlia di un fabbro del ferro battuto, che faceva oggetti straordinari (lampadari, cervi…), un lavoro molto tecnico, con apertura al nuovo: aprì anche un’officina di auto, ma credo gli siano andati male gli affari. Era un artigiano geniale e un po’ strambo. Scriveva commedie in versi che da bambino ogni tanto mi recitava: un tipo di operette “popolari” alla maniera dei muratori che cantavano ottave in Appennino. Dopo la morte di mio padre nel 1944, non avendo noi niente (fame sì, però), l’università di Padova offrì a mia madre un impieghetto come bibliotecaria, precaria, parastatale: ebbe così un piccolo stipendio. Mia madre aveva una grande memoria: di tutti i libri sapeva titoli e collocazione senza bisogno di consultare i cataloghi. E così mangiavamo…»

E il papà?

«Mio padre si chiamava Guido, assomiglia a Lorenzo: era violoncellista, in un’orchestra e anche solista. Ho ritrovato qualche sua registrazione, un disco del 1927, registrato a Calcutta. Per me era la musica: era scherzoso, ci faceva giocare sempre, inventava. A Padova era famoso per la cavata: veniva da una famiglia molto musicale in cui suonavano violino e violoncello. È morto che io avevo 8 anni, ma ho fatto in tempo a suonare con lui, mi ha messo in mano il violoncello quando avevo 5 anni. L’anno dopo abbiamo fatto un concertino insieme, in pubblico, a scuola. Curava molto la posizione della mano e del braccio, ma era un po’ arrabbiato perché non avevo tanto orecchio, non avevo natura di violoncellista, probabilmente. Erano molto esigenti quei maestri, molto. Sulla copertina di Lorenzo e Cecilia c’è lui che suona davanti al sole che tramonta, in laguna a Venezia (agli Alberoni). Gli ho dedicato la prima Lettera a Dorothea».

Quanto ha a che fare la letteratura (la tua letteratura, la tua scrittura) con la musica, cioè con il suono (papà), e quanto con una dimensione artigianale (mamma)? Credo che Paul Valéry dicesse, rispondendo a una domanda sull’ispirazione, che il primo verso viene da Dio, il resto è lavoro…

«Forse il primo verso viene dal lavoro, per me: poi dio…se si degna… Quanta fatica per trovare la metrica, e dentro l’esercizio il midollo della voce, per vedere/sentire qualcosa di intonato. Era quello il problema, l’intonazione: ma non senti che è un fa diesis? La mia scrittura ha tanto a che fare con la musica. A volte dico (l’ho anche scritto): quando racconto mi sento un violoncello… È in quella metrica fonica delle poesie, delle prose e dei testi “teatrali” che c’è la musica del violoncello: spesso entro nei versi canonici, settenario, novenario, decasillabo, endecasillabo, ma non li cerco che raramente a priori. L’obiettivo è quel sistema di risonanze che la strofa racchiude, il suo cuore sonoro, che per me è anche molto timbrico, e quantitativo. Credo che sia qui il dialogo col maestro padre, il violoncellista, proprio un dialogo da allievo a maestro: e non è un caso che la prima Lettera a Dorothea (dove affronto la questione dello stile) sia dedicata a Guido Scabia».

E il lato materno, più artigianale?
 
«Anche il violoncello è artigianato, artigianato delle mani, delle dita: è molto corporeo il violoncello, e quando mio padre aggeggiava dentro il violoncello per riposizionare l’anima, noi guardavamo incantati, e quando andavamo dai liutai, era andare in piccoli antri delicati e polverosi, dove eccelleva la perfezionalità. Mia madre? Sì, era umiltà e memoria assoluta. E poi aveva una capacità di racconto particolare, non racconti di favole, perché favole non ne sapeva: erano descrizioni realistiche, fatti, diceva seriamente, senza mai ridere, e non per far ridere, dei torsi di realtà netti e stravolti, semplici, potenti. Anche lei c’è nella Lettera a Dorothea. Ma per me c’erano anche i suoi parenti artigiani, suo padre, il fratello che s’ingegnava in qualunque mestiere, e sempre con le mani d’oro. Io non ho ereditato le mani d’oro, e piano piano, forse per via di quel nonno materno fabbro, sono arrivato a farmi il teatro vagante, le oche eccetera: fino all’albero dei poeti dell’estate scorsa, due mesi e mezzo di lavoro, dai disegni alla scultura in cartapesta. Durante la scrittura di In capo al mondo sono stato molto a lungo davanti al cervo in ferro battuto fatto da mio nonno: avevo capito da Flaubert e da Cézanne quanto è importante stare sul motivo… La musica è l’altro volto della poesia: sono due volti in uno, Dioniso e Orfeo. Ma è molto la madre lingua scolpita e gentile di Delia che ho ascoltato, la sua rara capacità di sintesi, alla maniera popolare: la sua capacità di nominare, dare i soprannomi, ma non per offendere, o deridere, solo per definire, mettere le cose al loro posto. Il suo era proprio realismo quasi romanico, e venetico, parlava un dialetto delicato, gentile e chiaro, inesorabile, quella sua lingua personale e unica, come quella di Cecilia… e di noi… A un certo punto mi sono reso conto, dopo tanti sconquassi e rivoluzioni e proclami (parlo anche di me) che c’era accanto un tesoro tremante… » 

Vorrei chiederti ora come hanno agito e agiscono, in questa ricerca dell’intonazione, i “tuoi” autori, le letture. E l’ammirazione vitale, attiva per i maestri, che oggi sembra una virtù quasi perduta e che invece è il motore della società, della cultura, dell’arte, della poesia?

«È la virtus epica o epos, che si è realizzata leggendo alcuni autori a voce alta: Ariosto, García Lorca in castigliano, Ungaretti, Apollinaire, Baudelaire e Villon in francese, Foscolo, Caproni, i provenzali in oc, e Shakespeare e Marlowe in inglese, e Heine e Goethe, per esempio la prima Notte di Valpurga, e la ballata corrispondente, in cui le streghe sono sacerdotesse pagane della natura, fiorite e luminose. E altri: è difficile capire a fondo in traduzione… E poi cercando il suono danza (la metrica del dire cantare) in qualche testo greco. Per esempio, dopo aver chiarito tutti i significati, in Euripide, il più attento alla musica. E ripensando agli omeridi nel loro cantare narrare, per esempio Demodoco dai Feaci. E guardando alle duine di Chrétien de Troyes (per esempio, il Perceval). E sempre più imparando io a suonare la mia voce
non in senso attoriale, ma autorale, cioè portando la musica dentro i significati. E tanto ascoltando i cantori del Maggio e gli ottavisti, e i pupi ad Acireale negli anni 1978-80, il cunto nei maestri di Cuticchio e in Mimmo stesso, poi i cantastorie emiliani ancora vivi e in giro per le piazze negli anni Sessanta e Settanta, e ancora certi grandi burattinai a Bologna, nella Bergamasca, a Parma. E ancora ascoltando il mio amico Cristiano Contri, cavallaro e boscaiolo, che narrava le fiabe e le storie come forse gli omeridi. È allora che questa musica epico narrativa viene per la prima volta dopo tanto sperimentare, soprattutto facendo i cantastorie del Gorilla, di Marco Cavallo, di C’era una volta la città dei matti, recitando per strada Il Diavolo e il suo Angelo, vero laboratorio per l’epica. Quanti narratori popolari ho ascoltato e registrato, a decine, mamme in Sicilia, Umbria, Toscana, boscaioli, pastori».


Che cos’è per te l’epica?

«Epico è qualcosa che stia nella voce. Nane Oca sta tutto nella voce, è epico. Prima di pubblicarlo l’ho letto a Marmoreto, in Riviera del Brenta, nel Pavano, sia a gente della mia lingua pavana, sia a toscani e piemontesi e a gente delle campagne lombarde. Ho pubblicato solo quando sono stato sicuro dell’epico. Nella voce mi sono piano piano accorto che c’è un di più: il tremito del profondo, e che la vera metrica è quel tremito del profondo che poi se si scalda (il tremito) diventa il duende, i suoni chiari, i suoni scuri. Non tutto quello che scrivo è pensato epicamente, ma i testi teatrali devono essere epici, e le poesie mie sono epiche. Per esempio Albero stella di poeti rari è un poema epico. C’erano dei suoni in certi passaggi del mio amico Luigi Nono che mi scoperchiavano un po’ l’anima della mente, sconvolgevano, come in Stravinsky e come in certi passaggi di violoncello di mio padre che suona musiche indiane da lui trascritte, e certi suoni nei boschi, rami, frusciare, scartocciare delle foglie di faggio, e nell’acqua, il tutto che nel particolare suona, si rivela nell’intonazione. Forse su per le galassie c’è musica poesia così: ecco perché tanto mi piace immaginare Orfeo come riassunto del lavorio pratico umano, della domesticazione, degli innesti, del fare case di pietra, il fare vero, poiein, fare canto ma fare anche il proprio strumento. È per questo che tenta di vincere la morte: ce ne sarebbero di cose da dire. Che bel dialogo…»

Io potrei anche considerarmi soddisfatto dell’intervista e chiuderla qui, perché quando tu parli della voce si entra nel vivo, si tocca la carne della poesia come nessuno sa fare, perché solo tu (o tu più di tutti) la senti nel corpo, come corpo, suono, emanazione musicale. So bene che è una metafora abusata, quella della carne e del corpo, ma non so dire di meglio. Ma pensando al tuo fare instancabile e alle tue origini, e cercando di storicizzare, ti voglio chiedere: quanto ti senti figlio di un’epoca per eccellenza sperimentale come è stata quella dei primi anni Sessanta?

«Gli anni sperimentali? In me continuano, quelle partiture visive, quelle musiche aperte, quel cercare ovunque, quell’ascoltare il mutamento, quell’uscire dalle forme, e poi l’andare nel basso mondo, quello da cui sono venuto, piano piano in/tonare alto e basso, i residui delle tradizioni e il nuovo necessario, ascoltando con quella sonda che a volte può essere il teatro come evento, andare in cerca dell’accorgersi, cercare di capire la forma del mutamento (e che mutamento abbiamo vissuto e stiamo vivendo), e cercare di essere col corpo/anima nel mutamento, per dargli una mano, farmi dare una mano, e anche eventualmente dire: attenti, qui si va alla catastrofe. E poi sopra l’alto degli archistar ascoltare le voci umili non ancora trasformate in spettacolo, in copia del vero. Cercare il vero nel mare del falso, non era questo, all’inizio, anche dadà? Quanto mi verrebbe da dire sullo sperimentare…»

Sei appena stato in Cina, l’estate scorsa. Che cosa hai visto?

«Era a Shangai e mi sono detto: se il futuro è questo, è l’inferno. Spettacolare, a tratti sconvolgente: ma tutto il cemento, il vetro, le pietre, le arie condizionate creano un clima caldissimo, a tratti insopportabile. Tutte le città del mondo fatte in questo modo stanno strangolando il pianeta, soffocandolo. Anche Bergoglio dedica un capitolo al cemento e all’aria condizionata. Il futuro della Cina è Shangai, ha detto la signora che ci accompagnava (ci ha portati anche al piccolo museo del partito comunista): ma a me sembra che il futuro che si vede a Shangai sia Topolino, quello di Disney. Topolino corona la vetta del cavatappi, il grattacielo più alto, forse anche Buddha è Topolino, ormai, a Shangai… A parte questo, la Cina è piena di poeti, di stravaganze, di bellezze e mostruosità, e io sbalordito, incapace di giudicare, colpito dall’umanità dei cinesi, sospeso, come Li Po, come Lu Hsun, come la verticalità che ha sostituito l’orizzontalità».

La società, il mondo ti hanno portato in qualche misura a ripensare il tuo modo di scrivere? Cioè: fino a che punto ti senti dentro e fino a che punto ti senti fuori dal contesto non solo letterario?

«Quando mi sono accorto che remavo in un’acqua di serra, un po’ asfissiata, ho provato a capovolgere il mio ascolto. Dove stava la lingua vivente, il parlato, il flusso? Forse sui margini dei campetti del gioco libero (non piagato dal malessere del denaro), forse oltre la soglia di certi bar, o in residue piazze di città e paesi, o sul limitare della perdita di ragione, o nell’assoluto voler conoscere dei bambini, o nei manicomi che si aprivano, o nei turbamenti degli adolescenti, o nel dubbio intorno alle certezze delle grandi utopie…? Dov’era nel suo fermentìo il volgar’eloquio? Tre grandi maestri avevano capovolto la loro vita e scrittura cercando il volgar’eloquio, ossia il rapporto con la lingua vivente, il parlato: Dante, Manzoni, Pasolini. Stando “sul campo”, a perdermi in sentieri e valli e caverne e monti in azioni e ricerche in cui spesso mi sono sentito perso, pian piano ho capito meglio quel loro cercare. Non c’è una società generica, ci sono certi luoghi, certi nuclei umani, certe persone, certe anime particolari, certi parlanti che sono veri, non  “letterari”: come Tinta, che abitava in manicomio a Trieste, come Cucù, dawn carissimo che si esprimeva a suoni astratti e a cunei disegnati. Che maestri per me! Ecco, il mio dialogo è stato ed è con questo rivelarsi del logos in ogni momento del tutto, ieri, oggi, domani. Adesso ancor più, mentre tutto si fa rete, si fa ombra, fantasma. Come mi piace, col mio cavallo di cartapesta, andare in traccia del logos, per sentiero e per foresta…»

Non trovi che la letteratura, e la poesia in particolare, abbiano uno statuto o un ruolo sempre più deboli, sempre più mercantili? Come si fa a resistere allo scoraggiamento per uno scrittore che ha sempre cercato di sperimentare instancabilmente?

«Ogni occasione è occasione di poesia d’occasione. Mosè sotto dettatura scrive un protopoema solitario. E sa che avrà risonanza. Bisogna avere un po’ di fede, un po’ di speranza: bisogna che le poesie siano davvero invincibili – di solito i veri poeti la sanno lunga, e vedono lontano. Mi piace far sentire la voce dove è possibile, dove accade che la voce possa essere sentita. Che pena il rincorrere il nulla che vedo in tanti scrittori. E che pena le piccole parrocchie dei poeti fra loro autoprotetti. Mi piace recitare per i sassi, per l’acqua dei torrenti, per le case fatte dai miei amici muratori, per il vento, per le persone rare e care che incontro, tante, a piena voce, con grazia. A piena voce».

Sei stato molto amico di Roberto Cerati, l’eminenza grigia dell’Einaudi. È lui che per tanti anni ti ha accompagnato, sollecitato, accolto. Che cosa ne è di quella editoria di amicizie?

«Sono matti quasi tutti gli editori. Pensano che la poesia (la letteratura) si faccia con la quantità, a peso, come i salumi, le saponette… Leopardi, un libro solo, e 36 canti, solo 36, invincibili. Cerati, che mi sta sempre accanto, è stato per trent’anni la mia musa: lui sì diverso, lui sì francescano («esserci, se possibile, sempre, apparire mai», diceva): mi ha aiutato a strutturare i libri, mi ha indicato come buoni testi che stavo trascurando. Era (è) il maestro. A lui è dedicato il ciclo dell’eterno andare (ciclo di Lorenzo e Cecilia). Pochi giorni prima della sua partenza gli telefonai per avere consiglio sul titolo: fra le due ipotesi che gli sottoposi non ebbe dubbi: Dell’eterno andare, disse».

[Intervista uscita negli atti del convegno del 19 maggio 2015, Camminando per le foreste di nane Oca, a cura di Laura Vallortigara, Edizioni Ca’ Foscari Venezia 2016].