Il cinema di Marco Ferreri è un teatro anatomico, dove il motore è la morte. Solo con la morte c’è la possibilità d’indagine. Ogni corpo è una carcassa in potenza, e mentre gli altri, tutti gli altri, si preoccupano di fare un cinema della vita, dell’illusione, Ferreri sventra quelle carcasse, e le porta alla fine, con una dolcezza baconiana, pennella il dolore in colori accesi, allegri, colpendo in faccia gli spettatori, dilatando i desideri e scavalcando il senso del pudore, allargando gli spazi – da quelli della mente a quelli dello stomaco fino a quelli delle metropoli – e tirando dentro la storia umana gli animali come solo Anna Maria Ortese farà nel romanzo. Perché Ferreri è un veterinario mancato – ha studiato e poi è andato oltre – e pensa che animali e uomini possano interagire, scambiarsi di ruolo, in quasi ogni sua trama – o tentativo – c’è il coinvolgimento favolistico degli animali, non a caso Giorgio Cremonini, per il cinema di Ferreri, parla di «favole della morte». Gli animali sono quelli più umani degli umani, sono il nodo delle storie, e sono anche le vittime, i primi a salire sul tavolo del Grande Teatro Anatomico Ferreri (GTAF).
«Credo che sia abbastanza necessario ricordarci ogni tanto che dobbiamo morire. Se lo ricordano anche i cattolici, ma in funzione oppressiva. Io vorrei invece ricordarmelo in funzione liberatoria. Nessuno oggi vuol parlare della morte, sembra che sia quasi proibito. Soprattutto perché se ricordiamo che dobbiamo morire non si possono comprare due macchine, non si può fare una famiglia. Se non pensiamo che il nostro periodo è un periodo abbastanza transitorio, forse ci dobbiamo preoccupare troppo del problema del successo, del problema di riuscire a fare qualche cosa, che credo sia lo stimolo, il mezzo con il quale oggi si tiene la gente».
Nel suo Teatro Anatomico ogni cosa è post, o sta per esserlo. Per questo il suo cinema sembra avanti ancora adesso, perché è un cinema dell’oltre. Ferreri è un caso unico di regista, dispari, una luce tra due bui. Appare, sconvolge, sparisce. È l’essenza del cinema, oggi impossibile da avere. Non ha paura di nulla, partendo dalla morte, la paura massima. Fuori dagli schemi, fuori dal sentire comune, fuori dagli obblighi di qualunque tipo, e per questo costantemente sotto censura. All’esterno del suo teatrino anatomico c’è il mondo, un mondo banale, fatto di franchisti prima e di democristiani dopo. Lui comincia a fare cinema in Spagna (1958) e poi torna in Italia (1963). Mentre Fellini fa sfilare i preti, Ferreri li fa disperare. Mentre Pasolini fa mangiare la merda agli italiani e Piero Manzoni la inscatola, Ferreri ci gioca, perché non ha morale, o se ce l’ha è una morale così alta da essere altrove. Un filo dell’orizzonte lontanissimo e nascosto dal suo corpaccione. È di sinistra, si iscrive pure al PCI, ma non è un integrato, sta di lato a guardare la carcassa del mondo disfarsi, in anticipo, vede già la polvere quando ancora il corpo deve essere ferito. Per questo appare profetico: capisce che non ci sarà più borghesia, ma solo emarginazione all’interno di una società inutilmente densa, anticipa tutte le derive sessuali e le categorie del Porno di oggi, consuma l’idea di Dio – un Dio al quale non si possono fare domande –, usa il corpo degli uomini e delle donne prima che sia tardi, attacca matrimonio e famiglia, si infila nelle camere da letto, nelle cucine, sulle terrazze, nelle periferie e nei cantieri, prima che tutto sia ricostruito, sovrappone il tempo con le sue storie come solo Ezra Pound, e poi sparisce. Una cometa passata per il cinema, per brevità. Sembra essere in anticipo solo perché è post e sta sezionando i corpi degli uomini, delle donne e degli animali. Gioca con le viscere come i sacerdoti cercavano i destini. Non ha eredi, sembrava non avesse padri (Buñuel e Antonioni forse Goya) o fratelli (come Fellini) se non per parodiarli. Dopo ha avuto un sodale lontano in Rainer Werner Fassbinder, un legame di pancia, corpo, disfacimento. E un legame onirico è riscontrabile solo in certe canzoni di Lucio Dalla, evocato in una scena di Dillinger è morto. Ma, Ferreri, sembra arrivato per caso al cinema – «Prima non facevo niente, dopo ho fatto il regista» –, senza maestri se non d’altro: «Il mio professore di veterinaria è il mio regista preferito», e pronto ad andare altrove: «Ma io non lo so, può darsi che faccia i film perché mi serve per prepararmi a fare qualche altra cosa». E si piazza in una zona intermedia, altissima per qualità e pensiero e immaginazione, ma non ancora perduta. Un anomalo cinema dell’oltre. È sospeso Ferreri, per troppo vantaggio, tanto che negli anni si modera, smette di prendere un elemento straniante e costruirci una storia intorno, bordeggia la sociologia, gira, diventa francese, ma non scende nel vacuo, continuando a sfuggire alle etichette che lo vogliono: neorealista, grottesco, comico, aggressivo, contestatore, visionario, illuso, bambinesco, pretenzioso, radicale, provocatorio, lui, in realtà, fa solo Ferreri, pratica la disparità di visione, che lo porta – con naturalezza – a non somigliare a nessuno, eppure a trovare un pubblico – talvolta molto vasto – disposto a perdersi nei suoi spazi, nelle sue favole, restando tramortito tra pugni nello stomaco, incredulità e domande abissali.
Appartiene a una specie di un solo esemplare, uno strano orso con teatro anatomico al seguito, un orso dottore, sciamano, mago, direttore di circo, attore riottoso, scrittore pigro, visionario, una specie non studiata, perché sfuggente, imprendibile, basta vederlo nelle interviste: è annoiato, distratto, sornione, elusivo ed eversivo, ma a pezzi, a ricucirlo, viene fuori un pensiero sghembo, ribelle, eppure ben focalizzato; lui non guarda mai chi lo intervista, ma il suo cinema vede tutto, allarga gli spazi fino a bucare il tempo, basta guardare come riesce a trasformare un improvviso grand canyon nel mezzo di Parigi (venuto fuori dai lavori nel quartier des Halles) in perfetto teatro per rifare – in parodia – la battaglia del Little Bighorn in Touche pas à la femme blanche. Ferreri, regista dispari, inventa spazi unici, filmandoli: un’isola, una città, una casa, un corpo. Per Aristotele, il luogo è «la parte dello spazio i cui limiti coincidono con quelli del corpo», mentre lo spazio è «la somma totale dei luoghi compresi dal corpo», e nel corpo di Ferreri e nelle sue trasposizioni cinemalcarnalografiche (femminili e maschili) c’è un’altra geografia.
Il corpo principe dei suoi spazi è quello femminile, sempre presente sul tavolo del suo Teatro Anatomico,
«penso che la posizione della donna sia molto più vitale di quella dell’uomo, perché più cosciente e combattuta. Mentre l’uo-mo si sgretola, la donna diventa più potente, cresce. Io sono convinto che siamo arrivati alla fine di una civiltà, che quello che ci sta intorno è un mondo di morte, ma questo non vuol dire che l’umanità non abbia un futuro»
quello vice, il debole, con i difetti meno visibili, ma più gravi, è il corpo maschile. La speranza, che soccombe, è quella del corpo animale. Troppo delicato, troppo oltre, per la banalità umana. Ed ecco gli animali: la scimmia, la cagna e i cani, i tori, le galline, King Kong. Quando non c’è l’animale, c’è l’oggetto come in I love you (il portachiavi). I suoi corpi giocano con la morte, aprono spazi per dimenticarla, ma poi si arrendono.
«Quello che racconto io è la storia di un animale che si chiama uomo»
Ferreri ha un rapporto con la fine che è singolare, ripudia la memoria, che considera una vigliaccata, sembra avere in odio la nostalgia, perché è fuori dal tempo, rinchiuso nel suo Grande Teatro Anatomico Ferreri (GTAF) dove si avvicendano Rafael Azcona – scrittore e sceneggiatore che in un libro sembra negare l’opera ferreriana: Los muertos no se tocan, nene – e principalmente tre attori: Ugo Tognazzi, Marcello Mastroianni, Michel Piccoli, gli altri, che pure non sono affatto banali – da Depardieu a Gazzara passando per Lambert, Benigni, Jannacci e Jerry Calà –, sono degli incontri fuggevoli, perché Ferreri sa che il fine ultimo è il cinema senza corpo, senza città, solo di spazio immaginato, quello cinematografico come nel suo ultimo film Nitrato d’argento. Ha attraversato il Novecento e il suo cinema per arrivare alla fine, senza il bagaglio del corpo, svuotato e pronto per andarsene prima che il secolo finisca.
Il veterinario Ferreri, camuffato da regista-autore, ha passato la vita a consumare i corpi degli altri, per dimenticare il suo corpaccione, per non salire sul tavolo anatomico, limitandosi a una proiezione – Tognazzi e Piccoli lo incarnavano bene ma lui voleva essere Mastroianni l’uomo mediterraneo per eccellenza –, sezionando e raccontando: tutta la vita a fare un discorso pubblico sui corpi che esaminava, davanti al nulla, consumando il tempo per non salire su quel tavolo e non farsi esaminare, tanto che oggi è una impalcatura di ipotesi sulla aleatorietà delle immagini. Diffidava della scrittura, eppure s’è tenuto di fianco uno scrittore forte come Azcona, ha usato scrittori fortissimi come Kafka (L’udienza), Flaiano (La cagna) e Bukowski (Storie di ordinaria follia), ma solo per portarli nel suo Teatro Anatomico e farli a pezzi, rimontandoli a suo piacimento, ridotti a Frankenstein per non interrompere il suo monologo.
Ferreri puntava alla disintegrazione dei corpi e della loro unione (il matrimonio), puntava alla disintegrazione della società, puntava alla dimostrazione che il sogno capitalista non è altro che una accelerazione del disfacimento: sin da El Cochecito – sogno di un vecchio che vuole una carrozzella a motore posseduta dai coetanei disabili –, il desiderio che sia sessuale o materiale è l’origine della trama, e dove c’è la trama e dei corpi che interagiscono, lì c’è la morte, e di conseguenza il teatro anatomico di Ferreri, quindi il suo cinema.