Il cinema meridionale e proletario di Lina Wertmuller

È stata la voce del bradisismo a Pozzuoli, la faglia sotto i monti Marzano, Carpineta e Cervialto, l’immobilità granitica delle cattedrali romaniche pugliesi. Lina Wertmuller (morta lo scorso 9 dicembre a 93 anni) ha nella sua narrazione tutte le variazioni ritmiche e timbriche dei movimenti della terra del sud.

Voce antica che non si disperde nella modernità, universale senza dimenticare i dimenticati del progresso economico e tecnologico. Proprio per questo, come in un cunto di Giambattista Basile, i suoi film si sono trasformati in fiabe contemporanee, rispettando alla perfezione l’evoluzione a gradi di Vladimir Propp tra equilibri e rotture, peripezie e mutamenti, senza dimenticare il fantastico e l’amara ironia delle vite più difficili.

Gli eroi – tra tutti Mimì metallurgico e Pasqualino Settebellezze – sono accolti dalla macchina da presa nell’incoscienza bambina, tra l’utopia politica lontana dalla coerenza quotidiana e la millanteria propria di un’età poco adulta, attraversando guerre, smarrimenti nel Mediterraneo ed esili per tornare maturi, al termine del loro bildungsroman.

E come in tutte le fiabe c’è sempre una morale, un monito per i più giovani, un insegnamento antico che non deve disperdersi, nonostante il capitalismo abbia donato a tutti l’illusione di un’equità formale: “Lo sapevo che non mi dovevo fidare di una ricca”, urla Gennarino Carunchio nel finale di Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto, “perché i ricchi ti fottono sempre”.

Se il cinema nasce come arte proletaria, con le prime proiezioni nei varietà, teatri di second’ordine e fiere, Lina Wertmuller riporta con i suoi film il cinema al posto che gli era stato assegnato, tra i poveri, allontanandosi presto dalla matrice autoriale, propria del secondo dopoguerra. E neanche si può parlare di commedia all’italiana, perché è una forma “che si è occupata prevalentemente di borghesia“, come afferma la stessa regista a Paolo Virzì in un’intervista per Tele+ nel 1996, “raccontando molto bene storie di architetti e di imprenditori”.

La sua probabilmente è più una commedia alla meridionale, degli ultimi e disgraziati, operai e prostitute, vedove e disoccupati. Da aristocratica di origine e da intellettuale che non ha mai confuso l’appartenenza con lo schierarsi, ha rivendicato il popolare senza mai scadere nel pop.

Il suo cinema è stato un imperturbabile occhio estraneo a tutto, sopra le parti, che voleva andare oltre l’oleografica cartolina meridionale del “tirare a campare” – come canta Enzo Jannacci in Pasqualino Settebellezze – per far emergere e insegnare, senza saccenteria, la dignità e il dolore, la difficoltà e l’ironia. E proprio perché popolare, è stata una dei pochi registi a saper raccontare corpo, sesso e piacere nella sua massima soddisfazione, senza falsi pudori e elusioni.

La volgarità!” – risponde Gennarino Carunchio alla borghese Raffaella Pavone Lanzetti – “Nell’amore non c’è volgarità. Ve la siete inventata voi ricchi, la volgarità.” Così il culo di Elena Fiore inizia a occupare lo schermo prima di divorare come una mantide Giancarlo Giannini, le gambe di Mariangela Melato allungarsi ad ogni caduta nella sabbia, e la ciclopica Shirley Stoler espandersi sul divano da kapò con il frustino.

Là dove Federico Fellini avrebbe interrotto la scena con qualche secondo di anticipo – ma solo per poter convivere astutamente con il suo cattolicesimo –  e Pier Paolo Pasolini avrebbe continuato e duplicato le inquadrature, Lina Wertmuller trova l’esatto equilibrio: il corpo non è mostrato per far arrossire i preti, né per scandalizzare la Democrazia Cristiana, ma per raccontare senza esitazione e per ridere, perché il corpo non deve essere semplicemente attraversato dal dolore.

Dalla gioia del sesso al piacere della tavola, il cibo assume un ruolo centrale nel cinema della regista. Se in Sabato, domenica e lunedìtrasposizione cinematografica della commedia di Eduardo De Filippo in epoca fascista –  il ragù risponde alla reiterazione borghese del rito e dell’equilibrio famigliare, in Francesca e Nunziata, il pastificio è la chiave del sottoproletariato per accedere alla classe superiore, il mezzo per non patire più la fame ma per saziare il desiderio di affermazione di una nuova epoca, dove si spera che finalmente i capaci e i meritevoli possano programmare l’economia, rispondendo ai bisogni di tutti. Non c’è evocazione del ricordo tramite il gusto, ma semplice appagamento dei più poveri a veder riconosciuto finalmente il loro posto nella società.

Lina Wertmuller ha attraversato l’Italia e il Novecento come una locomotiva, lunga come il nome all’anagrafe e i titoli dei film ai botteghini, dritta e a ritmo costante come le sue idee e la sua visione. La linea ferroviaria che l’Italia meridionale non ha mai avuto, quella che avrebbe portato il vero progresso, sbaragliando le chiacchiere dei basilischi, l’arricchimento ingiustificato dei già abbienti, lo smarrimento delle masse, rispondendo finalmente alla domanda: se ce ne andiamo tutti quanti chi rimane? Tutti.