Vita tua vita mea

Permettetemi un’annotazione personale: Ho un debole per Emanuele Coccia. E non tanto perché si tratta di un filosofo noto, uno dei più illustri tra gli italiani della nuova generazione (Tant’è vero che lo hanno capito meglio in Francia, dove insegna all’École des hautes études en sciences sociales, che da noi) ma perché di qualunque cosa parli, ti sorprende e ti costringe a dismettere idee che ti porti dietro da tempo o a intravederne di sconosciute.

Era successo con il suo libro La vita delle piante. Una metafisica della mescolanza (Il Mulino 2018), e ancora con Filosofia della casa. Lo spazio domestico e la felicità, pubblicato da Einaudi lo scorso anno.

Per l’occasione avevo avuto modo di scambiare due battute con lui e mi aveva detto poche parole che ancora mi fanno riflettere: “La ragione per cui costruiamo case è che abbiamo bisogno di un contenitore per raccogliere oggetti e persone che vogliamo sempre con noi, per stabilire un rapporto di intimità che ci permette di raggiungere un grado minimo e indispensabile di felicità. La felicità non è solo un fatto psicologico, spirituale, essere in un certo modo o volere un qualcosa, ma è materiale. Per sentirci bene dobbiamo spostare cose, agire sulla materia. La casa che abitiamo con qualcuno è un progetto di una felicità condivisa”.

All’epoca il suo libro Métamorphoses era già uscito in Francia. Qui è arrivato ad aprile pubblicato sempre da Einaudi. Un testo ancora più sorprendente dei precedenti che parte da un assunto dichiarato, senza mezzi giri, nella premessa del libro: “Metamorfosi muove da un’idea molto semplice: la vita di tutte le specie è una, e una sola. Poco importa che si tratti di cani, gatti, querce, lecci, soffioni, platani, maiali, porcini, falene, streptococchi: tutte le forme di vita sono figurazioni di una medesima sostanza, modi accidentali che non smettono di crearsi l’uno dall’altro e di distruggersi l’un l’altro. La vita non è che un’unità cosmica che stringe la materia della Terra in un’intimità carnale. Siamo tutti carne della stessa carne, indifferentemente dalla specie cui apparteniamo”.

La copertina dell’ultimo libro del filosofo Emanuele Coccia

Una tesi, come fa notare più avanti, che l’arrivo del Covid, nel frattempo, avrebbe in qualche modo messo sotto il naso di tutti, visto che “una piccola creatura – un virus – aveva invaso tutte le città francesi e il resto del mondo”. Il paradosso, aggiunge era evidente: “Le ultime pagine del mio libro, scritte diversi anni prima, invitavano a considerare i virus come forma paradigmatica di metamorfosi e ad assumerli come modelli per pensare il futuro. Quasi per un’inspiegabile vendetta cosmica, adesso un virus ci impediva di percepire qualsiasi futuro. Eppure gli avvenimenti che hanno accompagnato l’inverno del 2020 hanno indirettamente dimostrato la tesi sostenuta dal mio libro”.

Chiuse le premesse, capitolo dopo capitolo, Coccia sviluppa la sua teoria secondo la quale la nostra carne, considerata a lungo come appunto nostra, qualcosa che ci appartiene per la durata dell’esistenza e, secondo la religione cristiana persino dopo, tanto che al momento della risurrezione ce la riprenderemo, propria la stessa, è, invece, “letteralmente carne riciclata, che ha già vissuto almeno una volta nel corpo di un altro”.

Una realtà che, però, dobbiamo dimenticare fin dall’inizio. Tutto ciò che si è stati prima della nascita deve per forza essere segnato dall’oblio. Per questo, nessuno ricorda il momento in cui è venuto al mondo, ovvero il momento della metamorfosi “da una forma all’altra, da una specie all’altra, da un regno all’altro”. Che, poi, fa notare, è il contrario di quanto sostiene, per esempio, Hannah Arendt che definisce la nascita umana come l’ingresso nel mondo “di una creatura nuova che, come qualcosa di completamente nuovo, fa il suo ingresso nel mezzo del continuum temporale del mondo”.

Diverse pagine del libro sono dedicate agli insetti, esempi viventi di metamorfismo. Il bruco che diventa farfalla dimostra una capacità di plasmare corpi così diversi da aver spinto, in passato, a considerare queste creature magiche.

Mentre, riflette Coccia, “la biodiversità planetaria per gli insetti è una questione di virtuosismo personale”. E spazio è dedicato a un essere altrettanto straordinario come la medusa Turritopsis dohrnii, per ora l’unico animale conosciuto al mondo che sia in grado di ringiovanire, regredendo completamente ad uno stato di immaturità sessuale.

Secondo Coccia soltanto la prova più evidente di un processo di alternanza che riguarda tutte le creature. Scrive: La metamorfosi, dunque, è il ciclo dei diversi ringiovanimenti periodici del vivente: siamo condannati a metamorfizzarci solo perché non potremo mai separarci dalla nostra giovinezza, da questa forza di ringiovanimento che continua a scolpire il nostro corpo”.

Per stomaci forti il capitolo Alimentazione e metamorfosi, nel quale il filosofo ci costringe a visualizzare questo enorme banchetto di carne e “anime” che presuppone un riciclo continuo di vite che escono da un corpo per nutrirne un altro: “Mangiare non significa immettere materia nel nostro corpo, ingerire elementi ed energia. Mangiare significa travasare la vita altrui nel nostro corpo. Non importa se morti, cotti, affumicati o essiccati: noi abbiamo bisogno di corpi viventi. Ciò che mangiamo è sempre e solo vita. Mangiare significa fondere due vite in una sola”.

Una “fusione” che non esclude nessuno. Si sa, infatti, che una volta morti diventeremo alimento per altre creature. Un pensiero, è il caso di dirlo, difficile da digerire. Ma perché l’idea di essere mangiati ci sembra intollerabile? È una domanda alla quale la filosofa ed ecofemminista australiana Val Plumwood ha tentato di rispondere dopo essersi trovato a un passo dall’essere ingoiata da un coccodrillo.

Arrivando alla conclusione che dobbiamo farcene una ragione per il bene di tutti. “La crisi ecologica che stiamo vivendo si potrà superare solo arrivando ad ammettere l’uguaglianza e la reciprocità nel circuito alimentare. (…) Pensare a noi stessi in termini di cibo per gli altri è il modo più elementare per pensare la vita come una circolazione, come il dono di una comunità di antenati e la morte come un riciclo, un flusso che prosegue in una comunità ecologica e ancestrale di origini”.