Il nuovo romanzo dell’autrice che ha ispirato “Carnage” di Roman Polański

Tornano le parole di Martin Heidegger leggendo le conversazioni, litigi e rimproveri dei personaggi che appartengono al mondo letterario di Yasmina Reza. Perché in fin dei conti “la chiacchiera non è comunicazione, comprensione, intendimento, bensì modo di esistere o di comportarsi”, e soprattutto “è l’indizio di un’alienazione o estraniazione o incapacità di aver rapporto con quel che sia, cioè, appunto, un ‘chiudersi’”.

E proprio come è stato per il microcosmo dell’amicizia – nell’opera teatrale Art – o per il nucleo della coppia – ne Il dio del massacro, divenuto poi film diretto da Roman Polański, Carnage (2011) – Reza, da drammaturga e scrittrice, registra e si diverte a incastrare le chiacchiere di tutti i ruoli, per portare in superficie quanto sia inautentica la comunicazione della vita quotidiana.

Un continuo camuffamento linguistico per eludere sempre quello di cui si vuole realmente parlare. Uno stratagemma che appartiene a qualsiasi gruppo o comunità, specialmente alla famiglia.

Sono stati fratelli in un tempo remoto ed estranei che continuano a frequentarsi nel presente, i protagonisti, “i tre ragazzi Popper”, dell’ultimo romanzo di Jasmina Reza, Serge (Adelphi, traduzione di Daniela Salomoni, pp. 186).

Uno schema classico, una formazione da romanzo russo: Nana, la più piccola e cocca di papà, Jean, io narrante ed eterno conciliatore, e poi il maggiore, Serge, che richiama l’anarchia di Gainsbourg: fumatore e perdente, amante goffo e insaziabile, irascibile e commovente. Serge mangia con voracità, beve e pensa al sesso non per sfamarsi, ma per sentire eternamente il gusto della vita.

Da famiglia ebraica, senza legami religiosi e culturali, si avvicinano all’inizio della vecchiaia senza smettere di giocare a torturarsi, accusarsi e prendersi in giro, anche a fingere interesse ed affetto, finché la madre Marta – la donna che ha Vladimir Putin in forma di calendario vicino al suo letto, intento ad accarezzare un ghepardo, perché a parer suo, ha “gli occhi tristi” – muore, lasciandoli confrontarsi con l’eredità domestica e storica che loro appartiene: la memoria.

È proprio questo il tema, il fulcro in cui si concentra il rapporto dialogico di alienazione e incomprensione. Durante la visita dei tre fratelli ai campi di Auschwitz e Birkenau, Reza svela e analizza la rappresentazione di quello che l’Occidente chiama il “dovere del ricordo”: persi tra visitatori in pantaloncini a fiori e bastoni per selfie, alberi e aiuole ben curate, in una lunga sequenza di “terribile”, “indicibile”, “atroce”, l’imperativo moralistico della memoria si scontra con la creazione di fatto di un set per turismo di massa.

Si è villeggianti di un’atrocità, suggerisce Reza tramite il monologo interiore di Jean, ma mai testimoni, se non di quello che si è vissuto. Il compito che spetta alle nuove generazioni non è ricordare, bensì continuare a studiare, capire, comprendere.

Il talento della scrittrice, in poche pagine, è proprio quello di metterci di fronte all’inconsistenza dei nostri post durante le giornate della memoria, la condivisione di immagini con simboli della pace o bandiere, la rituale e banale formula: io non dimentico.

Da un viaggio costruito con la speranza di riunire, ben presto la tensione cresce in una catena di sarcasmo, rifiuto e isteria, sancendo di fatto la frattura e l’incapacità di comunicare tra i tre. Se Nana insegue con la sua ossessione voyeuristica ogni sito di Auschwitz e Jean si perde tra l’ostinazione di compatimento e pietà, Serge si chiude in un malessere simile all’infarto, sigarette perennemente accese e rigetto per qualsiasi partecipazione. Ecco la miccia che porterà a un punto di non ritorno.

Yasmina Reza e Mario Vargas Llosa alla cerimonia di apertura del XIII Prix Diálogo del 2016

Jasmina Reza, in Serge, gioca come suo stile all’alchimista con le vite degli altri. Dissemina nei suoi dialoghi pause, silenzi e tutte le parole non dette, costruisce con pazienza le basi del precario equilibrio quotidiano, tende la trappola nel silenzio e aspetta che la verità irrompa per far cadere l’intero castello di carte. Che l’inganno finalmente si manifesti in tutta la sua potenza.

Un romanzo che non teme nel registro ironico di parlare con libertà di argomenti estranei al registro famigliare. Perché, se pure attraversa le regioni delle piccole preoccupazioni personali, della paura della morte e della difficoltà delle relazioni, non rinuncia a varcare la soglia dell’orizzonte domestico per gettarsi nei grandi temi della contemporaneità. La volontà dell’umano di costruirsi un’estetica di impegno, una zona confortevole in cui non sentire la colpa.