Il rumore della civiltà

Quelle macchine rotanti che hanno l’aspetto di un futuro asettico, inanimato, pauroso, che girano divorandosi la creta a cemento, il granito metallico. L’unico segno di vita è uno stridio di cingoli, un percuotere di tamburi. Non è bello il rumore della civiltà se lo senti dalla punta di un picco distesa a piano, di notte sotto un cielo che incombe di luci calde segnato dal canto di un cucco confuso, insonne. Andare o stare? Tornare o rimanere? Già se te lo chiedi il tuo posto non è qua. Vivere in campagna, montagna, collina, non può essere una scelta, solo un’impellenza. Andarsene fuori dai palazzi, dalle vie del centro è una stupidaggine o una impresa da geni, non serve il cervello per scappare, bisogna averci il fisico.

E bisogna avere le orecchie, perché se non lo senti che la civiltà è fondamentalmente un rumore continuo, fastidioso, del tipo delle talpe della terza galleria di valico, non hai bisogno di fughe, ti serve una pausa, di tanto in tanto, o ti serve un alibi per dire: torno indietro per sistemare quelle due, tre, quattro, cinque cose, vendo, chiudo, saldo e chi si è visto si è visto. No, così i pini non faranno da ombra alla tua morte serena, finirai in colombaia, in una cappella, nel marmo lucido che fa casetta a terra. Sei buono per la montagna solo se avverti il ronzio, se ogni giorno che passa fai a meno di qualcosa, senza accorgertene, senza che ti pesi: non abbandoni solo il cellulare, non spegni solo il computer, ma lasci sul tavolo pure i fazzolettini, il siero antivipera non è più una tua priorità e incominci a pensare che nel bosco ci si sta alla pari, non lo ricordi più il pin del bancomat.

Fuksas, Boeri, ti sembrano dei fighetti, cittadini in villeggiatura col biglietto del ritorno aperto, col paracadute attaccato alle spalle. L’andare non va calcolato, cova il rimpianto. Va pensato solo l’arrivo come traguardo tagliato, la fine di una fatica immensa dopo 42 chilometri di corsa. Poi, dopo sei mesi cominciano le voci: se immediatamente pensi a dove hai messo il numero della psicoterapeuta, scappa subito, è inutile insistere. Se invece ti incuriosisce il fatto, accosti la mano aperta per sentire meglio, il tuo file all’INPS ha già cominciato a cancellarsi. Piazza Gae Aulenti diventa una pozzanghera indistinta, il bosco verticale solo un’edera rampicante, la movida di corso Como è l’isterismo di uno sciame di api selvatiche in cerca di un nuovo nido. Il mondo si scinde: quello degli altri, lontanissimo, immaginato, il ricordo di una pellicola che narrava di galassie disperse, mondi implosi. La tua terra è viva, brulicante di formiche voraci, di mosche che discretamente ti stanno dietro in attesa paziente dei resti sontuosi di un tuo pasto qualunque, l’aria traspira dai tronchi dei bagolari, si filtra fra gli umori di acque di roccia, ed è bella la vita dei pastori rannicchiati sotto le frasche a inzupparsi di pioggia e lasciarsi cullare dai tuoni autorevoli del temporale, i fiumi si ingrossano di passati inutili e depositano il limo di un futuro che non ha voglia di essere programmato, l’ascia non segna più i palmi che costruiscono i fuochi dell’avvenire, le lame dei rovi e delle ginestre spinose non riescono più a incidere una carne tonica da esordio umano.

Il cottage, l’acqua calda, la diavolina che accende sono l’elastico, lo puoi tendere a dismisura e non si spezza, il rumore della civiltà è un dolce canto di sirene, la resa che ti salva che morto lo sei sempre stato. Una casa di pietre sagomate a martello, due occhi che ti guardano dall’altra parte del fuoco e la stesa a terra fra i pungoli a pera di un perastro, e parole, parole, parole di fiati inesauribili, la strategia del tressette, l’inclinazione dell’orto e un lievito madre che non morirà mai. Il tempo, il tempo che non basta, le suole che si consumano come le labbra degli amanti che non sono mai passati da una farmacia. Non conoscere mai le lancette di una bilancia e dimenticare il giorno, il mese, l’anno, progettare di andare a piedi a Stoccolma senza sentirsi folli. Siamo piccoli ingegneri, costruiamo minuscole celle perché l’immensità della bellezza ci terrorizza: il progresso è la delimitata corsia di un ospedale che cura i depressi; la natura è spazio infinito per stomaci insaziabili gonfi di euforia. È da sciocchi pianificare la fuga dai palazzi se non lo sentiamo davvero il fastidioso rumore della civiltà. È da coglioni inzuppare di sudore i panni da boy scout sognando di finire la giornata seduti al tavolo di un’osteria di paese, declamando poesie davanti a un Sassicaia del ’98. La città è condannata dal faro, non riuscirà mai a leggersi i piedi, a guardarsi dentro. Il fuori si illumina a candela, sa rischiararsi ogni buio dell’anima. Cesare Pavese non l’ha avuto il coraggio bastante per starsene, al confino, sempre davanti a uno specchio, e pure Pasolini ne aveva paura, il coraggio gli bastava solo per la toccata e fuga. Lo spazio aperto ha terrorizzato Alvaro e Brancati. Sciascia è uno dei pochi che sia riuscito a vincere, a capire che la periferia, il paese, la campagna, non fossero rinunce, ma vere conquiste, gli unici trofei di cui andare fieri. L’uomo non ha bisogno di sicurezza, deve solo mettersi le proprie paure davanti agli occhi, imparare ad amarle. L’insicurezza degli spazi indomabili è l’unica felicità a portata d’uomo. In fondo ogni spazio è prigione, il vantaggio vero è che in campagna il custode spesso è distratto. Omero con un cellulare in mano non avrebbe mai concesso all’umanità né Achille né Ettore. Sarebbe bastato un GPS per svelare l’inganno di Dante. Il mondo, chi se lo è goduto, ha potuto farlo grazie alla mistificazione, al sogno, alla violazione della regola del tiranno e all’inadempimento della prescrizione del medico. La città è la certezza che un giorno si morirà. La campagna è l’illusione di una qualunque immortalità. Se ne stanno all’aperto gli eroi, a disposizione del fato.