L’ Album di D’Elia dedicato a chi sfida i limiti

Seduto sulle proprie sconfitte”, su una barca scricchiolante che è al tempo stesso il teatro, solo fra il cielo e il mare. È tutto finito, il tempo delle grandi domande, delle terribili paure, dell’anima che interroga il senso. Dei primi versi: “Quello che alla fine siamo / le nostre ossessioni / un quadro, una donna, un libro, una musica / il mare, la balena, il teatro”.

Gigantesco sul suo troncone di legno, Achab arriva dalla grande letteratura. E alla letteratura adesso ritorna, dopo aver attraversato altri mondi.

Il Moby Dick che Herman Melville pubblicò nel 1851 ha la potenza del classico che non si conclude con la parola “fine”, ma genera nuove opere.

Al cinema lo ha portato John Huston, filmando sulla tolda capitan Gregory Peck. Orson Welles, che probabilmente nel cuore della lotta all’ultimo respiro fra l’uomo e il capodoglio ben si immedesimava, più volte è tornato a rappresentarlo ed è anche autore di un Moby Dick alla prova che unisce Melville e Shakespeare, e che di recente è tornato in scena con Elio De Capitani.

Io, Moby Dick nasce come spettacolo, di cui Corrado d’Elia è autore, regista, interprete. E ora è diventato un libro. Solitamente, o una rappresentazione è tratta da un testo letterario, oppure alla base c’è un testo drammaturgico, che sia Shakespeare o Cechov, su cui poi attori e registi lavoreranno. In questo caso l’operazione è inversa.

Prima – nel 2017, cui è seguita una seconda versione post pandemica – è venuto lo spettacolo, accompagnato dalla musica e con il solo d’Elia sulla tolda del Pequod, di fronte a una platea che è come un mare nero in ascolto. “L’evento teatrale è come un mandala – dice l’autore – di cui il testo non è che una delle componenti: ci sono anche la musica, le luci, le persone… Un mandala che a fine rappresentazione si dissolve lì”.

Niente lo potrà più ripetere, la replica successiva sarà inevitabilmente diversa, la ripresa televisiva per quanto (anzi: tanto più perché) ben fatta è altra cosa, non passa attraverso la carne ma per i pixel.

Quando il poeta Alessandro Rivali ha visto lo spettacolo, ha però suggerito a d’Elia che Io, Moby Dick poteva avere “un valore artistico in sé.

Nasce così l’idea del libro, che riprende le parole recitate con alcuni tagli e appunto con l’assenza di altri linguaggi, oltre che con introduzioni e postfazione sull’opera di Melville e l’operazione di Corrado.

L’esperienza dello scrittore e quella dell’attore regista sembrerebbero tuttavia totalmente diverse: da una parte l’isolamento della tastiera e dall’altra la comunità, sia della compagnia sia del pubblico.

In realtà, dice d’Elia, in teatro sei sì circondato di persone ma “vivi una solitudine totale: sei in te stesso, a indagare sul senso dell’esistere”.

Solo è l’attore in scena come solo è il capitano Achab, che per il mare ha lasciato la giovane moglie vedova bianca e che non può condividere con alcuno il significato della sua caccia, “la ricerca di qualcosa che non vedi e che ha un senso demoniaco, di colpa, di peccato”.

Perché il capitano e il suo capodoglio sono “la stessa cosa”, li lega un arpione metaforico, che è l’ossessione di andare sempre oltre, sfidare i limiti. Fanno parte, insomma, della famiglia di Ulisse, di Prometeo, di Faust.

Insegnano, dice d’Elia, che “l’importante per noi è riprendere a desiderare, a sognare”, non accontentarsi della vita sicura dei tanti Starbuck (così si chiama il secondo del Pequod) che ci circondano e che vorrebbero tornarsene tranquilli a casa.

Siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni”, diceva non a caso Prospero. Di sogni poi possono esisterne tanti, e non necessariamente hanno a che vedere con la sfida ultima di Achab e la balena bianca.

D’Elia ne ha indagati diversi, in una serie di spettacoli battezzati Album, “in cui io mi denudo idealmente davanti al pubblico”.

Accanto a Io, Moby Dick, ha dato vita per esempio a Io, Ludwig van Beethoven, che il 14 luglio ripropone al Castello Milano, o più di recente a Io, Steve Jobs.

Certo, capitan Apple non è capitan Achab, “ma li accomuna il fatto che entrambi – come gli altri che ho portato in scena – non hanno mai distinto fra vita e arte”. Dove per arte si intende la passione/ossessione ad andare oltre ciò che già esiste (e in questo senso ciò che ha fatto Jobs ha cambiato decisamente la vita di tutti noi).

Ma personalmente d’Elia quanto riesce a separare rappresentazione e realtà? Risposta in bilico: “Io mi sento maledettamente umano, pervaso dal desiderio di solitudine per vivere a pieno l’arte. Ma la vita è fatta anche di rapporti…”. Sono probabilmente gli stessi che cercano le persone che tornano a teatro, dopo le chiusure causa Covid: “La sensazione è che quest’estate il pubblico si senta come liberato, ci sono platee e arene piene, è un rito che torna a rinnovarsi, gli spettatori hanno bisogno di sentirsi comunità”.

L’autore quindi continua a lavorare per il teatro, ha appena presentato a Recco uno spettacolo pensato per celebrare questa città medaglia d’oro della Resistenza e parteciperà in Campania a un altro ispirato al libro La Reggia di Carditello.

 

L’esperienza del libro non rimarrà però un unicum. Intende ripeterla, anche per evitare che i mandala di cui parlava si dissolvano definitivamente. “Una volta pubblicato, il testo rappresenta un’avventura arrivata a compimento e va in mano ad altri”.

Ai lettori e anche a chi – come è successo con la produzione teatrale di Dario Fo – può riprenderlo in mano e rifarlo vivere. Nel frattempo, Corrado d’Elia lavora anche alla saggistica, e si occupa dei grandi maestri del teatro europeo. Scelta importante “in un momento in cui le giovani generazioni i maestri rinunciano”. Ogni allusione a Fedez e al suo “Strehler chi (cazzo)?” non è casuale.