Italy, You’re My World. Canzone italiana dei 60

All’alba degli anni Sessanta la british invasion era alle porte, i giovani eroi del pop-rock britannico si preparavano a dare l’assalto al mercato discografico statunitense, e mentre si lanciavano all’attacco lasciavano scoperti pezzi di campo alle loro spalle, dove ora si spingevano alcune melodie italiane. Uscita dalla fame della guerra e dagli affanni dell’immediata ricostruzione, l’Italia aveva ricominciato a intonare melodie leggere, a partire dal cinema dove al crudo neorealismo era subentrata la commedia agrodolce degli intrighi amorosi borghesi, vitelloni nei bar rivieraschi, viveur urbani e sgangherati ladri d’appartamento. In musica l’italoamericanismo di ritorno riaccendeva i passi dello swing sulle gambe di Fred Buscaglione, sognando Chicago o New York con gli occhi di chi fa avanti e indietro la Tuscolana.  Erano gli anni del boom economico, artefici di una Dolce Vita goduta in sella a una Vespa, in un Campari a Trastevere, nel taschino di una giacca firmata Valentino. L’immaginario di un’Italia godereccia affascinò molto gli stranieri, e col tempo diventerà purtroppo un brand come un altro da capitalizzare e stereotipare; questo dopo però: in quegli anni per gli inglesi che d’estate spendevano le loro vacanze tra Roma e Amalfi, l’Italia rappresentava uno stile di vita glamour ed elegante, ma era pure uno stile di canto giacché quelle canzonette – come scrive Edmondo Berselli in Canzoni. Storia dell’Italia leggera  (Il Mulino) – erano la voce dei costumi dell’epoca, ne diventarono il manifesto e il canone. Un canone di eleganza e precisione vocale.    

Certo, l’Inghilterra era diversa e distante dall’Italia, forte dell’egemonia culturale con la quale si apprestava a lanciare le principali mode musicali dei Sessanta, dal merseybeat al pop psichedelico. Se gli inglesi ballavano la swinging London, Roma si bagnava vestita nella fontana di Trevi; lì la Pop Art era nata alla Whitechapel Gallery, qui Schifano e Rotella le davano appuntamento al Caffè Rosati in Piazza del Popolo; i tifosi a Old Trafford godevano nell’implacabile meccanica calcistica di Bobby Charlton, quelli a San Siro gioivano sulle parabole a foglia morta di Mariolino Corso. Apparentemente due mondi diversi – dicotomie, antipodi, come il freddo nord e il sud Mediterraneo – ciascuno scorgeva nell’altro quella qualità che gli mancava per realizzare il proprio compimento. Così se la sfrontatezza del beat spingeva i ragazzi del Piper a liberare i loro corpi, gli interpreti inglesi attingevano alla purezza melodica della canzone italiana per conferire grandeur espressiva al loro stile canoro. 

A fare da catalizzatore a questo processo furono, oltre che le copiose versioni italiane di successi anglofoni, le edizioni del Festival di Sanremo, il cui regolamento negli anni Sessanta ammetteva in gara anche cantanti stranieri, conferendo alla kermesse un respiro internazionale.  All’edizione del 1965 si presentò pure Dusty Springfield, dea del soul bianco alla quale non riuscì il sortilegio di incantare la giuria dell’Ariston; i suoi due pezzi vennero entrambi esclusi  dalla finale ma lei non tornò affatto a Londra a mani vuote, riuscendo a ottenere da Pino Donaggio, anche lui in gara, i diritti per incidere la versione inglese di Io che non vivo (senza te). Pubblicato l’anno successivo con il titolo di You Don’t Have to Say You Love Me, il singolo raggiungerà la vetta della classifica UK e si piazzerà quarto in quella americana. Seduto sul sedile posteriore della sua stessa hit, il nome di Donaggio fa il giro del mondo viaggiando nella prima classe delle corde vocali di Dusty, e quando qualche anno dopo avverte gli occhi troppo pesanti per colpa  delle notti bianche passate a cantare nei club di mezza Italia, una mattina all’alba trova l’occasione di ritornare alla composizione pura, che aveva studiato al conservatorio di Venezia, nella proposta di un uomo ubriaco appena conosciuto al bancone di un bar. Quell’uomo è il produttore Ugo Mariotti,  ha per le mani il film di Nicolas Roeg  A Venezia un dicembre rosso shocking e  ha bisogno di una colonna sonora. Donaggio accetta e poco tempo dopo i suoi spartiti si ritrovano sulla scrivania di Brian De Palma, che lo vuole per adagiare Albinoni sul letto di sangue di Carrie, lo sguardo di Satana, avviando una collaborazione durata ben sette pellicole.    

 

L’anno prima che Dusty Springfield gareggiasse a Sanremo, Cilla Black, cantante e volto popolare della tv inglese, aveva reinterpretato nella lingua di Shakespeare un altro classico italiano di quegli anni. You’re My World traduceva senza troppe licenze Il mio mondo di Umberto Bindi,  e sebbene lo portasse al primo posto delle classifiche di mezzo pianeta – dall’Inghilterra all’Australia, dal Belgio al Messico – l’originale di Bindi rimane insuperabile per i sibili d’archi che la introducono, il canto mesto e potente, quei twang di chitarra elettrica che sono un niente ma colorano uno struggimento d’amore tutto italiano di un’insolita polvere desertica. Già nella versione originale la canzone aveva raggiunto il primo posto in Francia e Spagna, ora, col successo planetario della cover inglese, Bindi sembrava davvero lanciato verso la carriera luminosa che non ebbe mai, per ritrosia congenita anche, ma soprattutto per l’isolamento e le derisioni subite nell’ambiente a causa della sua omosessualità.  

 

Sul finire del decennio, nel 1968, anche Quando quando quando sbarcò in Inghilterra per vivere la sua terza vita; le prime due le aveva consumate nel 1962, al festival di Sanremo dove si classificò quarta e negli Stati Uniti grazie alla versione bilingue di Pat Boone, che la cantò alternando una strofa in italiano a una in inglese. Tony Renis l’aveva pensata come un’italianizzazione della bossa nova brasiliana, di cui replicava la ritmica basculante; sei anni più tardi arrivò al microfono di Engelbert Humperdinck, interprete inglese dal nome d’arte tedesco, che la tradusse fedelmente in Tell Me When, creandone l’archetipo swingante a cui si sarebbero poi rifatti intrattenitori da centro commerciale come Michael Bublé. A differenza dei casi precedenti, Tell Me When non ebbe particolari picchi di vendita, e d’altronde nel frattempo la scena musicale inglese si era animata di una fauna sotterranea composta da pifferai magici, guerrieri elettrici e alieni da Marte. Uno di questi, David Bowie, una decina d’anni dopo quando tutto era cambiato e la dolce vita solo un ricordo smarrito negli anni di piombo, pare abbia tratto ispirazione per il crescendo vocale di Heroes dall’ascolto di Se telefonando di Mina. Lo raccontava il giornalista Anthony DeCurtis in un vecchio numero di Rolling Stone, tuttavia sul web non ce n’è traccia e il suo ricordo potrebbe essere tranquillamente un sogno. Come quegli anni di melodie felliniane.