Da Madame Du Deffand e il suo mondo (1982), La civiltà della conversazione (2001), Amanti e regine (2005), Maria Antonietta e lo scandalo della collana (2006), fino a Gli ultimi libertini (2016), Benedetta Craveri ha ritratto e scandagliato lo spumeggiante, variegato e tempestoso mondo delle corti e dei salotti francesi tra il XVII e il XVIII secolo, per approdare con La contessa. Virginia Verasis Di Castiglione (Milano, Adelphi 2021) in pieno Ottocento, tracciando la conturbante sinopia (altro non si può fare in quel genere illusorio che è la biografia) di una figura di donna leggendaria quanto vilipesa. Lo ha fatto, potremmo dire parafrasando Paul Eluard, attenendosi a un metodo semplice ed esemplare “Je ramasse les débris de toutes ses merveilles“.
Il filo conduttore della inesausta ricerca della Craveri credo sia, senza alcun dubbio, quel libertinage, eclettico, di ascendenza rinascimentale e seicentesca (Montaigne, Gassendi, Charron, Descartes), che rivendicò tenacemente una razionalità laica e individuale, espressione del mondo aristocratico maturo e già declinante, sempre più asservito al Moloch dello stato. Non fu mai una vera scuola di pensiero, anche se ebbe i suoi érudits, e si protese oltre le derive illuministe, imprimendo orme profonde nel costume e nel pensiero europeo fino alle turbolenti avvisaglie del nuovo mondo borghese che irruppe con la Rivoluzione.
Nata il 1837 nella spensierata Firenze dei Lorena dal marchese Filippo Oldoini, diplomatico ambizioso quanto mediocre, e da Isabella Lamporecchi, il cui padre era un illustre e severo giurista, Virginia sposa nel 1854 Francesco Verasis conte di Castiglione, il primo dei suoi sfortunati adoratori, da cui l’anno dopo avrà il piccolo Giorgio, figlio non poco trascurato e maltrattato nel corso della sua breve vita, giungendo da ultimo allo scontro giudiziario per negargli una parte dell’eredità paterna.
Tre mesi dopo il parto, Virginia inaugura la sua lunga e invincibile carriera di seduttrice con un giovane ufficiale genovese. Dispotica, capricciosa e incurante di tutto ciò che non sia in suo possesso o disposto, come gli innumerevoli amanti, a diventarlo, si afferma in società al punto che al suo ingresso nei saloni ci si arrampica sulle sedie per vedere una tale meraviglia. Da Firenze alla corte di Vittorio Emanuele II, da Torino alla corte di Napoleone III (entrambi diventano suoi amanti), la contessa, giovanissima e bellissima, passa da un trionfo all’altro e Cavour in persona, suo cugino, se ne serve se non come spia, come informatrice negli anni in cui cerca nella Francia un alleato per opporsi alla dominazione austriaca in Italia.
Il massimo fulgore
Sfruttando abilmente i grandi balli in maschera, un vezzo della Parigi imperiale, Virginia prende coscienza non solo della sua straordinaria avvenenza, se mai ne avesse dubitato fin da piccola, ma anche di quell’arte della dissimulazione, della posa teatrale, degli abiti fastosi ed eccentrici capaci di far parlare di lei le frivole cronache delle gazzette. Fu uno dei tratti peculiari della sua innata abilità di sedurre.
Solo una donna, a parte i biglietti e le lettere degli spasimanti attratti da lei come le falene dalla luce, lusingati, accolti e nel giro di pochi giorni o mesi respinti con una freddezza di cui non si capacitavano, poteva renderle giustizia nel momento del suo massimo fulgore. Scrive la principessa di Metternich: “Confesso di essere rimasta di sasso davanti a questo miracolo di bellezza! Indossava un abito di tulle bianco trapunto da grandi rose a gambo lungo, e l’acconciatura consisteva solo nei suoi magnifici capelli disposti come un diadema di trecce sul suo capo. La figura era quella di una ninfa. Il collo, le spalle, le braccia, le mani –non portava i guanti, li teneva tra le dita- sembravano scolpiti nel marmo rosa! Questa magnifica creatura assomiglia talmente a una statua antica che la scollatura, quantunque eccessiva, non sembrava affatto indecente! E il viso non è da meno, ovale delizioso, incarnato di freschezza incomparabile, occhi verde scuro, vellutati, sopracciglia che paiono tracciate dal pennello di un miniaturista, un nasino alla Roxelana, sbarazzino e tuttavia perfettamente regolare, denti di perla. Insomma, Venere discesa dall’Olimpo! Mai ho visto una bellezza così, mai più ne rivedrò una eguale“.
Certi sguardi maschili più smagati, come quello di François Guizot, storico e ministro orleanista, pur nel renderle omaggio correggevano l’entusiasmo per tanto fulgore: “vanitosa, egoista, fredda, dura“. Aveva solo vent’anni. Cortigiane, pretendenti, rivali, mogli (l’irriducibile principessa Matilde), vengono sbaragliate. Capi di stato, grandi banchieri (Lafitte), diplomatici, ufficiali, saranno il lungo e plaudente corteo della sua vita, tiranneggiati, usati (spesso per soldi, o per ottenere favori, o anche per il semplice gusto di esercitare un potere e tessere trame), troppi per citarli: Madamina il catalogo è questo…
“Una donna in armi”
Naturalmente alle vittorie seguono le sconfitte, le improvvise ritirate nell’esilio provvisorio (Villa Gloria a Torino) dopo l’attentato Orsini a Napoleone, il ritorno sulle scene nei mesi incandescenti prima e dopo l’unità d’Italia (su cui in seguito edificherà il mito della sua importanza di patriota), pronta, quando il vento era sfavorevole, alla recriminazione se non al vero e proprio ricatto per ottenere prebende o appoggi nel vischioso mondo delle speculazioni in borsa.
A ragione Benedetta Craveri, cronista delicata e implacabile, ricorda le Liaisons dangereuses, il cinico gioco al massacro tra il visconte di Valmont e la marchesa di Merteuil, anche se mai la contessa Castiglione si sarebbe rovinata per un puntiglio, per affermare un’astratta superiorità. Era una donna concreta. Si muoveva nelle cancellerie d’Europa con un fiuto politico e un’abilità di manovra consumate, spesso superiori a quelli dei suoi grandi e potenti corteggiatori, in una incessante attività che ha lasciato traccia nelle lettere, sempre lucide e pungenti, lungimiranti, a dimostrazione che la bellezza e il fascino fisico e morale non erano tutto.
Non arriverà a impartire una lezione di Realpolitik a Bismarck durante le trattative con Thiers dopo Sedan? Batteva cassa, è vero, la spuntava per ottenere promozioni a quel padre vanesio e cerimonioso, per soccorrere un amico caduto in disgrazia, per sostenere il suo treno di vita dispendioso, le magnifiche dimore (si lamentava di un appartamento di dodici stanze davanti a palazzo Pitti!), i continui andirivieni da un paese all’altro, il lusso esibito e disinvolto.
Le sue vittime, consenzienti, potevano anche rimanere paralizzate, come quando si fa trovare nuda e ingioiellata dal generale Estancelin, confermando la famosa battuta di Victor Hugo: “Una donna nuda è una donna in armi“. Mandandolo temporaneamente in bianco… Era ossessionata dalla paura di finire in miseria, poi la separazione dal marito, quel figlio che si portava appresso o dimenticava come un bagaglio, e il tempo che la rendeva sempre più intrattabile, al punto che in una lettera al marito disperso per l’Europa la madre, unica persona di famiglia dotata di buon senso, la definiva “quella carogna della nostra figliuola“.
Capricciosa al massimo grado (il saggio di Freud sul narcisismo sembra scritto per lei), a un ballo in maschera che doveva sancire il suo ritorno in società, indossa un fantasioso e stravagante abito etrusco. Attira l’attenzione di tutti ma viene scambiata per una nobildonna russa (“Quale scherzo più crudele, per Virginia, di quello scambio di ballo, di personaggio, di persona?“) e si rivolge nientemeno che al ministro degli Interni per proibire la diffusione del giornale che è caduto nell’equivoco. Un reato di lesa maestà.
L’amore è una malattia
Al culmine della sua gloria sembra però di udire in lontananza il lugubre rintocco del tocsin, il giorno in cui riceve una lettera anonima dove le vengono ricordate tutte le sue non poche colpe e la si invita al pentimento. Una pagina degna del finale del Don Giovanni di Mozart. Né gli amanti e amici di una vita, il principe Poniatowski e Costantino Nigra, avrebbero avuto con lei vita facile, ricambiandola di uguale moneta, o forse proprio questo spiega la durata inusuale dei loro rapporti, sempre sul filo delle recriminazioni e dei rispettivi vantaggi.
Aveva mai amato davvero? Scrive a uno dei suoi amanti: “Io non credo nell’amore, è una malattia che passa come è venuta, a poco a poco, o una febbre intermittente simile a quelle che mi affliggono di tanto in tanto; non bisogna contare su qualcos’altro, non volere niente di più, non sperare oltre. Ripeto quello che ho sempre detto, benché abbia cessato di rammentarvelo; prendetemi oggi, non contate di avermi domani. Io sono una figlia di Dio che finirà in braccio al Diavolo, se Dio non la vuole. Ecco perché con veemenza, vi scongiura: restate quello che siete, non cambiate niente di ciò che siete stato, tenetevi pronto a rientrare in voi, a riprendere la vostra vita di un tempo, se la mia venisse a mancare“. Non tollerava di essere asservita (“il volermi far fare quello che si vuole è il non volermi fare quel che si deve“), volle sempre essere e rimanere “libera come un gatto“, senza mai farsi scrupolo, là dove ne aveva interesse, a farsi passare per vittima, capovolgendo l’evidente e fastidiosa realtà, come fece con il marito, come non si vergognò di fare con il figlio nel corso della lite per l’eredità: “Quanto a lui, gli sono ancora madre, ma non è più mio figlio“.
Si fece ritrarre nel corso di un quarantennio in centinaia di fotografie dal grande Pierson, coetaneo di Nadar, edificando un autentico monumento a se stessa, in cui si affermava e riconosceva come Sarah Bernhardt sul palcoscenico. Era versata come pochi in un’arte, che per lei forse era la continuazione dei tableaux vivants, a cui non rinunciò neppure negli anni della decadenza, quando, morti tutti i grandi comprimari della sua vita, lontana da ogni mondanità, afflitta da malattie, invecchiata, ridotta a vivere in poche stanze con la mania della sicurezza, trascorreva le cene in trattoria fino a ubriacarsi, subendo perfino l’onta di uno sfratto.
Emblema di un’epoca, non le sarebbe toccata in sorte la leggendaria vecchiaia di Chateaubriand, che i liceali si appostavano religiosamente agli angoli delle strade per veder passare (in Italia l’eccentrica signora fu presa di mira e sbeffeggiata da monelli irriverenti), né il sontuoso mausoleo un po’ kitsch in cui si sarebbe rinchiuso D’Annunzio, ma un appartamento foderato di nero, sinistro come una bara.
Jacques Blanche, pittore, figlio del famoso alienista Blanche, che tra gli altri ebbe in cura Nerval oltre che Virginia stessa, la ritrae impietosamente in una seduta di posa degli ultimi anni: “La mia modella entrò senza far rumore, scivolando sul tappeto, come un’ ‘apparizione’. Si mise in posa di profilo, con il busto eretto. Nonostante l’alta acconciatura in foggia di diadema, era una povera cosa. Ad uno ad uno, i veli caddero a terra… E riconobbi la Regina d’Etruria, l’Eremita di Passy [abiti e personaggi da lei interpretati nei balli in maschera e ritratti da Pierson] –idolo della corte di Napoleone III- un viso famoso ma imbellettato, rovinato, da bottegaia; un pezzetto di zucchero d’orzo mezzo succhiato nella mano di un bambino”.
Nondimeno sembrava voler affermare la sua granitica volontà anche nel disfacimento del corpo: “Le ultime fotografie di Pierson documentano la sua resa davanti alla devastazione della vecchiaia e la furia masochistica che essa aveva scatenato. Non si trattava più di mascherare la decadenza fisica ma di metterla alla gogna in un’ultima sfida“.
Morì a sessantadue anni e venne sepolta al Père-Lachaise. Come ricorda Benedetta Craveri, prima della fine “non le rimaneva che allestire lo spettacolo della propria morte“. E dettò l’abbigliamento funebre che esigeva: “Camicia da notte Compiègne, 1857, batista merletti e vestaglia lunga a righe, velluto nero, peluche bianca […]: al collo la collana di perle petite fille a nove giri, sei bianchi e tre neri, la solita collana […] con il soldo bucato di cristallo a mo’ di fermaglio, con le iniziali e la corona, ben nota a tutte le mie vestitrici; alle braccia, nude e distese, i miei due braccialetti, un onice con perla al centro e uno smalto nero, stella e brillanti“. Ai piedi i due maltesi impagliati, Sandouga e Kasino “belli, vestiti di tutto punto, cappottini azzurri e viola con le loro iniziali e i collari a motivi di fiori rosa e cipressi“.
Una scrittura incantevole
La contessa di Castiglione fu solo una Mata Hari di spregiudicata bellezza? Una meteora che attraversò un mondo già sulla via del dissolvimento? Una cocotte illustre quanto evanescente come venne ricordata nei patetici versi di Gozzano? Dobbiamo dare retta all’attrice che impersonava con spavalderia e tracotanza il copione della vita scelto per sé, o riflettere sul quel sorriso mesto che traspare dalle fotografie e dai ritratti più altezzosi e provocanti, in cui c’è quasi sempre un’ombra di sarcasmo e di crudele amarezza, rivolto a chi la ammira e più probabilmente a se stessa e al proprio destino?
In questo libro, forse il più bello di Benedetta Craveri, sfilano le inebrianti e a tratti vertiginose pagine di una storia minore ma sempre vicina alla Storia grande, dei popoli, delle nazioni che si scuotevano nelle convulsioni di un finale di partita. La Contessa al centro, certo, ma su tutto domina l’elegante e, a tratti, perfido incanto della scrittura della Craveri, che non giudica, non si celebra con l’esuberanza o il compiacimento del narratore, sembra al contrario ritirarsi a una distanza di sicurezza da cui mettere a fuoco la prospettiva. Sembra. Perché, ed è forse il suo vantaggio e merito più sicuro, la Craveri si accosta alle storie narrate fino a illudere di confondersi con loro scuotendo di dosso la polvere del tempo, indossando la bautta di una di quelle damine tanto innocenti quanto indemoniate che entrano ed escono dagli sfarzosi saloni. Aderendo con rammarico e indulgenza a quel mondo di cui forse rimpiange l’improntitudine. Sans merci.
La scrittura elegante, il gusto per lo scorcio inatteso e illuminato, l’osservazione maliziosa, il freddo distacco di un’anatomia dei caratteri che non cede alla simpatia dovuta né si accoda ai facili rancori suscitati, tutto fa di questo incantevole romanzo storico, appena celato dietro la ricerca minuziosa delle fonti, degli archivi, dei mémoires, un saggio di ciò che la vera Letteratura ci dona quando è sorretta da talento e passione.