Lo shuttle che avrebbe dovuto portare la nuova America nello spazio

Nessuna sentenza di un’aula di tribunale potrà mai essere pronunciata da uno schermo. Per le nuove generazioni probabilmente sarà consigliabile ribadirlo, magari con una comunicazione prima dei titoli di apertura: “Niente giudizi sommari, solo opinioni”, ma si spera che ancora per molto il cinema, soprattutto documentaristico, riesca a sfuggire al format del processo mediatico televisivo, non azzardando un verdetto, non pretendendo punizioni.

Il cinema preferisce l’opinione, rivendica una propria etica, ama mettere luce negli angoli bui, cercare le sfumature e non rifugiarsi nelle ripartizioni binarie. Tutti presupposti che sembrano estremamente chiari per Steven Leckart e Glen Zipper, creatori di Challenger. L’ultimo volo, miniserie in quattro episodi, prodotta per Netflix da J.J. Abrams. Perché a voler riaprire il dossier su uno dei disastri più sconvolgenti della storia americana – un testimone lo paragona alla “morte del presidente Kennedy nel ‘63” – nonché primo episodio di disonore per l’agenzia governativa NASA, c’era la possibilità che si preferisse scatenare la ricerca al colpevole piuttosto che analizzare la più delicata responsabilità diffusa delle persone coinvolte.

Decollo, fiammata ed esplosione. Solo settantatré secondi per descrivere la dinamica, l’ultimo volo dello Space Shuttle Challanger. Una missione, la STS-51-L, cominciata e finita tragicamente la mattina del 28 gennaio 1986 a Cape Canaveral che voleva essere più di un semplice tassello nella storia spaziale degli Stati Uniti; l’equipaggio muore a seguito dell’impatto della navicella con l’oceano Atlantico e per la sua composizione avrebbe dovuto segnare un passo importante per l’era spaziale, per la presenza di donne di due specialisti, uno asiatico e uno afroamericano, ma soprattutto per Christa McAuliffe, primo civile a prendere parte a una missione, prima insegnante ad avere l’opportunità di fare lezione dallo spazio.

Con il decimo volo del Challenger si apriva un’era di eguaglianza: i viaggi interstellari non sarebbero stati più un’esclusiva per gli specialisti del settore, ma un’opportunità di navigazione per il cittadino medio, l’americano qualunque. Esattamente come John Wayne riporta tutti a casa nel finale di Sentieri Selvaggi di John Ford, aprendo le porte dell’America a chiunque, lo Shuttle avrebbe portato la nuova America nello spazio, senza distinzione di genere e etnia, istruzione superiore e ceto sociale.

Allo stesso modo scrive Ben Lerner nel suo romanzo Nel mondo a venire (Sellerio) riprendendo le parole del presidente Reagan: “L’equipaggio del Challenger ci stava trascinando nel futuro, e noi continueremo a seguirlo”.

E con tutti i migliori propositi per il futuro e una società più inclusiva, con il Challenger partirono anche le più antiche tare del sistema capitalistico: nella lunga ricostruzione del nesso eziologico, dalle cause all’esplosione, che la serie Challenger. L’ultimo volo indaga, non emerge solo l’irresponsabilità di confermare la partenza in condizioni metereologiche avverse, o la conoscenza da parte dei tecnici – sia della Nasa che dell’impresa costruttrice dei booster, la Morton-Thiokol – dei ripetuti guasti e malfunzionamenti delle guarnizioni “O-Ring”, ma soprattutto l’assenza di qualsiasi tentativo di ostacolare una pessima decisione aziendale.

Anche nell’ultima riunione, a poche ore dal lancio, quando la maggior parte dei tecnici già sa che la partenza ha la destinazione di un disastro annunciato, i timidi no lasciano presto il passo a dei sì dettati dall’azzardo, dalla pressione di dover rispondere al governo per gli enormi investimenti economici erogati, dal prestigio di un’istituzione, pioniera nel settore scientifico, che non sapeva ancora dare una risposta definitiva e sicura al passaggio da scoperta a utilizzo commerciale. È la società dei bystander, di chi passa e aspetta che qualcun altro se ne occupi, che sa e non interviene, che ha paura del suo alienamento si rifugia nel conformismo, il primo pericolo da evitare, il monito d’allarme che diffonde la serie.

Durante le quattro puntate si procede ad una progressiva educazione allo sguardo: i registi Daniel Junge e Steven Leckart sanno allargare, indagare e sottolineare sempre più la distanza, la dicotomia di fatto che si va a creare tra narrazione e realtà, sogno e presagio, ambizione e superba ostinazione.

E se uno spazio nello schermo deve esserci per il giudizio e le valutazioni di responsabilità, è riservato giustamente alla commissione presidenziale, la commissione Rogers, per indagare sulle cause del disastro. Nonostante il tentativo di Reagan di sollevare quanto più la NASA da quello che poteva profilarsi più che un incidente “un omicidio colposo”, sarà merito di pochi membri – il premio Nobel Richard Feynman, il generale Donald Kutyna e la prima americana nello spazio Sally Ride – se il rapporto finale metterà in evidenza le gravi mancanze di manutenzione e diligenza dei tecnici coinvolti. Ristabilendo, almeno in parte, il circuito virtuoso, i principi cardine della società: mettersi in gioco in nome della verità e far sì che un errore non si ripeta.

Il risultato di Challenger. L’ultimo volo è una parabola per i tempi contemporanei, un avvertimento per tutti, dalla classe dirigente fino agli ultimi della scala gerarchica ad opporsi alla superficialità e non affidarsi alla sorte, soprattutto quando sono coinvolte delle persone.