La fine del mondo nella casa di bambola

Cambia planimetria Shirley Jackson, con la facilità con cui si cambia il fondale tra un primo e un secondo atto e ad ogni racconto corrisponde una costruzione diversa della narrazione. La casa, l’unità morfologica e funzionale di ogni buon americano, il centro nevralgico dell’individualismo, in cui sono concentrati egocentrismo, famiglia e proprietà, è da sempre l’ambientazione che l’autrice preferisce. Una scenografia ricorrente, eppure tutte le volte distinta.

È dalla casa che parte la sua panoramica per osservare, analizzare e raccontare un frammento del quotidiano della società americana del secondo dopoguerra.

Come le bambine delle sue storie, Shirley Jackson ama giocare con le trame come se fosse una casa di bambole ma, a differenza del rituale infantile, ne modifica ogni volta la struttura e la sua funzione: se ne L’incubo di Hill House la villa con le sue mura distorte, sproporzioni e impercettibili inclinazioni rappresenta il potere allucinogeno della paura e della paranoia, in Abbiamo sempre vissuto nel castello la tenuta della famiglia Blackwood ne costudisce i segreti lontano dal villaggio e dal giudizio della gente, dalla cima di una collina.

Così non è un caso che anche nell’ultimo romanzo, La meridiana (pubblicato per la prima volta nel 1958, Adelphi, 2021, pp. 251 con la traduzione di Silvia Pareschi), Shirley Jackson si diverta a far muovere e agire i personaggi, ospiti della famiglia Halloran, tra la grande villa, chiusa all’esterno da un alto muro di cinta, e il suo parco.

Un monumentale palazzo che sovrasta il villaggio dalla collina, abitato dalla ricca e potente stirpe degli Halloran, con una corte di istitutrici, giardinieri e bibliotecari che, quasi da servitori della commedia dell’arte, amano appianare divergenze e creare inimicizie, tessere alleanze e badare al proprio rendiconto personale. E poi nipoti, vecchie zie e antiche amicizie, tutti impegnati ad occupare uno spazio, pur sapendo che l’autorità indiscussa sulla tenuta è della regale Mrs Halloran – una personalità che avrebbe potuto essere interpretata dalla carismatica Gloria Swanson di Viale del tramonto –, la quale non manca mai di sottolineare in ogni dialogo: “La mia proprietà“.

È proprio questa la lotta crudele, anche se sapientemente elegante nelle sue forme, che Shirley Jackson porta in scena: quando c’è di mezzo il possesso, anche se si è bambini come la piccola Fancy, non ci sono limiti alle possibilità dell’essere umano per poter prevaricare sull’altro.

Tutto si complica e il gioco diventerà sempre più un massacro se un antenato della famiglia in un’apparizione – come il padre nell’Amleto – profetizza la fine del mondo. “Un fuoco nero” che, in piena Guerra Fredda, ricorda un’esplosione atomica, una delle ossessioni della Jackson, una forza distruttrice che non lascerà scampo a nessun essere umano sulla faccia della Terra, a meno che non si trovi all’interno della casa.

Circoscritto in questo ambiente chiuso e sempre più claustrofobico, in cui ogni personaggio tesse il proprio piano per la sopravvivenza a discapito dell’altro, spiando e al tempo stesso essendo spiato, Shirley Jackson allestisce La meridiana seguendo una partitura dialogica, da autentica pièce teatrale, quasi a rimarcare la necessità che qualunque violenza per realizzarsi abbia bisogno, prima dell’acme finale, di una continua minaccia o ritorsione verbale.

Ma se una nuova era dovrà nascere dalla villa –  come da disegno nell’utopia dei predestinati e di Mrs Halloran, loro regnante – un’età più giusta e senza barbarie, facilmente si intuisce che non potrà non assomigliare all’epoca precedente, con tutti i suoi errori e distorsioni, perché come afferma la piccola Fancy: “Voi tutti volete che il mondo cambi perché voi potrete essere diversi. Ma io non credo che la gente cambi solo perché vive in un mondo nuovo. E comunque quel mondo non è più reale di questo“. Una frase che risolve in maniera diretta l’enigma trascritto alla base della meridiana nel parco: “CHE COS’È QUESTO MONDO?“. Identico a quello passato, senza possibilità di eversione.

La meridiana è il romanzo che Shirley Jackson costruisce e in cui decide di far abitare lo spettro della proprietà, massima espressione e primo termine del nesso di casualità che porta allo scontro e all’autodistruzione.

Se in alcuni punti la trama soffre di ripetitività per le discussioni all’interno della casa, rallentando l’azione e mettendo a rischio l’ironia, l’equilibrio ritorna nelle descrizioni dei villaggi e dei suoi abitanti, nei tentativi di fuga e soprattutto nel lungo preludio finale della festa nel parco, allegoria di un mondo che prevaricando sui più deboli, pretenderà sempre di essere nel giusto e di avere dio dalla propria parte.