La Grande Bouffe: tragedia e farsa della carne

Quattro amici, il produttore televisivo Michel, il ristoratore Ugo, il giudice Philippe e il pilota Marcello, si ritrovano in una villa del sedicesimo arrondissement, a Parigi, per un seminario gastronomico all’insegna della più raffinata cucina. Non è chiaro il loro progetto, ma tutti e quattro lasciano direttive a familiari e colleghi come se non dovessero tornare più. La prima cena si apre ingurgitando ostriche e innaffiandole di Champagne Belle Epoque Perrier-Jouët mentre guardano immagini erotiche di inizio secolo. Presto però Marcello sente l’esigenza di soddisfare i suoi appetiti sessuali. Ma le tre prostitute chiamate in causa, dopo l’eccitazione iniziale, si rifiutano di continuare lo stillicidio del pranzo e una dopo l’altra abbandonano la casa. Tocca ad Andréa, una maestra elementare impegnata a spiegare agli alunni il valore dell’albero di Boileau nel giardino della villa, incarnare il polo femminile del quartetto, assaggiando cibi e corpi a piacimento senza mai stancarsi. Sul corpo florido della donna frana la virilità di Marcello, ucciso dal gelo nel vano tentativo di fuggire a bordo di una Bugatti accarezzata come una donna, dopo che il bagno si era riempito di escrementi. Il giorno seguente la morte si porta via Michel,  sospeso sul balcone mentre assiste allo scoppio delle sue viscere. Rimasti soli, Ugo e Philippe si dividono le grazie di Andréa impegnandosi nell’elaborazione di piatti sempre più complessi. Se a Ugo è fatale una cupola di San Pietro farcita di carne, Philippe, diabetico, muore senza aver terminato i due seni di gelatina offertigli dalla donna. Intanto, nel giardino, gli animali si preparano a divorare le carni avanzate.

 

Se all’uscita nel 1973 a Cannes, La Grande Bouffe fu in grado di scandalizzare la mentalità comune, nella società di oggi dell’eccesso, del food porn e del mukbang, la sua allegria un po’ macabra appare più vitale della provocazione e il suo attacco anticonsumistico meno oltraggioso di quanto sembrò all’epoca. «Con Ferreri e gli altri fummo costretti a uscire sulla Croisette accompagnati dalla Garde Républicaine. Il pubblico era furibondo. Quella sera fu difficile trovare un ristorante che ci accettasse. Per anni, ogni volta che entravo in un luogo pubblico c’era gente che si alzava e se ne andava. Ci furono polemiche feroci e discussioni infinite» commentò Andréa Ferréol anni dopo a La Repubblica. Ingrid Bergman, presidente di giuria, dopo la visione, vomitò colta da nausea. Un film carnale dove è il corpo l’oggetto-soggetto e il cibo (e il sesso) l’ultima speranza di un vivere povero di significati. Un vivere sospeso tra piacere e sazietà e degradato fino alle sue funzioni primarie e più elementari: ingurgitare, digerire, dormire, bere, ruttare, vomitare, copulare, orinare, defecare, nel tentativo di eliminare, assieme alle sostanze vitali, anche le scorie dell’ideologia borghese. Corpo che si consuma, corpo che si deforma mentre il tempo è scandito dai piatti che si susseguono.

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ROGNONE BOURGUIGNONNE (sequenza numero 69).

Lo scalogno riunisce in sé, più delicatamente, i sapori della cipolla e dell’aglio. In Francia si usa molto spesso. In Italia è difficile trovarlo (solo in Romagna ne ho trovato, e di ottimo, sottaceto). Comunque potete sostituire lo scalogno con un po’ di cipolla e il profumo dell’aglio. Ma veniamo ai nostri rognoni alla bourguignonne, che ne “La Grande Bouffe” ho preparato personalmente così.

Ingredienti (per quattro o sei persone):

due rognoni di vitello (che avete tenuto per una mezz’oretta in acqua e aceto).

quattro cucchiai di burro.

un bicchiere di vino bianco secco.

mezzo di vino rosso di Borgogna (ma anche un vino piemontese va bene).

tre scalogni.

trito di prezzemolo.

un cucchiaio di fecola di patate.

sale e pepe.

 

Tagliate a tocchi il rognone sgocciolato, e così come sta mettetelo in una padella sul fuoco per qualche minuto, onde far uscire buona parte dell’acqua… che contiene. Fatta questa operazione prendete un’altra padella e con due cucchiai di burro e la cipolla tritata fate rosolare i rognoni. Salate e pepate; dopo pochi minuti togliete nuovamente i rognoni dalla padella e versate nel sugo il vino bianco; fate evaporare un po’, aggiungete l’altra metà del burro, poi il vino rosso. Di nuovo fate evaporare, e quindi rimettete i rognoni, alzate il fuoco, e aiutate il sugo a restringersi aggiungendo, con l’aiuto di un passino, la fecola e mescolando delicatamente. Servite caldissimo.

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«La Grande Abbuffata è un Kammerspiel sulla morte (della borghesia) per eccesso di materialistico soddisfacimento dei sensi» ha scritto Lino Miccichè. Semplice, intimo, polverizzato alla maniera di Cesare Zavattini, l’azione si sviluppa tra pochi personaggi, con un dialogo limitatissimo e una scenografia basata su pochi ambienti. Iperrealistico, grottesco, di una ironia funerea, ma allo stesso tempo tenero, affettuoso, congiunge il linguaggio dello sberleffo e della satira con la carità, quella di un gruppo di amici che praticano, l’un l’altro, il suicidio amorevole via esofago. È uno sguardo, quello di Ferreri, affettuoso, al massimo ossessionato, che procede per contrasti generando un film di pieni e di vuoti, non solo, come ha osservato Moravia, stomaci traboccanti e genitali sgombri. Il vuoto esistenziale è quello dei dialoghi scarni curati da Francis Blanche, paroliere essenziale del cinema francese degli anni ’50 e ’60, il pieno sono le immagini simboliche, dense, ricche e opulente all’interno della casa in cui vivranno, scabre all’esterno, albe fredde invernali, grigie e di un tenue azzurro pastello: «il cui giardino abbandonato era come un ingiallito boa di struzzo messo attorno alle mura per proteggerne le rughe dagli sguardi indiscreti», scrive Tognazzi, uno dei protagonisti del film. Un simbolismo che rende quello di Ferreri un cinema di deduzioni e, nonostante i suoi intenti, «fare un film fisiologico e non di sentimenti, eliminare l’idea di concetto», le cui chiavi interpretative ricorrono più alle parole di Deleuze, Bataille, Foucault,  Baudrillard, sociologi e antropologi, che a paralleli solo in parte utilizzabili, con registi come Buñuel o Greenaway, a dimostrazione di come Ferreri e il suo cinema siano un pianeta isolato. D’altronde ne La Grande Abbuffata Ugo è Ugo Tognazzi e il suo accento nonché la sua arte culinaria, il corpo è svuotato e prestato all’opera, il significante coincide con il significante. Ed è lo stesso Tognazzi a richiamare il parallelo tra realtà e finzione: «Un legame tra me e Ferreri attorno al cibo c’è stato fino a che per lui non è diventato un problema […]. Credo che abbia avuto conclusione con La grande abbuffata, della quale io credo di essere stato l’ispiratore come persona, certo come suggestione, perché la mia passione per la cucina si concretizza normalmente con un gruppo di amici a casa. E io ho questa fissazione, per cui sto indaffarato e sudato in cucina tra i fornelli e finisco per portare a tavola troppe cose, troppo abbondanti, perfino troppo condite. E ho questa volontà di far mangiare, far partecipare. E lui […] venendo a casa e mangiando, più di una volta diceva: “Ci stiamo suicidando!”». Tognazzi si riferisce alle Cene dei dodici apostoli che si tengono presso la sua casa di Velletri cui ha partecipato spesso lo stesso Ferreri, alternando la sua presenza con Villaggio, Monicelli, Luciano Salce, Leo Benvenuti, Lina Wertmüller, Iaia Fiastri e via così. Si sottopongono alle sperimentazioni di Tognazzi ed emettono un verdetto anonimo scritto su un foglietto che va dallo “straordinario”, a dire il vero molto raro, passa per il “non male” e finisce con il “cagata” e l’ancor più prosaico “grandissima cagata”. Nutrizione e deiezione, nel film e nella realtà.

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TORTA ANDREA (sequenza numero 72).

Fare una pasta frolla grossa quanto la metà di un bel sedere femminile.

Spianarla a forma rotonda sul tavolo di legno. Alzare una donna prendendola sotto le ascelle, farla sedere a culo nudo sulla pasta, premere un po’.

Baciare a lungo la donna in attesa che l’impronta si formi sulla pasta, a caldo.

Togliere il sedere, lasciar riposare la pasta una mezz’oretta. Non lasciar riposare invece la donna.

Mettere la pasta con la sua forma su una placca unta di strutto o di burro, spolverizzarla di pane grattato, coprire il tutto con carta oleata sulla quale vanno posti dei fagioli secchi. Mettere al forno per circa un quarto d’ora.

Aggiungere poi: susine snocciolate, ciliege snocciolate e albicocche tagliate a metà e snocciolate, cotte in un po’ di sciroppo fatto di acqua e zucchero.

Rimettere al forno per altri venti minuti circa. Far addensare sul fuoco lo sciroppo della cottura della frutta e versarlo alla fine sulla crostata dopo averla tolta dal forno.

Mentre si raffredda, continuare a tenere in caldo la donna.

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«Se escludi il cibo, tutto è epifenomeno: la sabbia, la spiaggia, lo sci, l’amore, il lavoro, il tuo letto» dice Michel steso sul tavolo da biliardo mentre addenta una coscia. Il cibo è uno dei temi sempre presenti nel cinema di Ferreri, uno degli argomenti principali cui dedica la sua curiosità antropologica sin dal suo film d’esordio. Già in El pisito (1960), su un soggetto di Rafael Azcona, suo storico collaboratore, il protagonista, Rodolfo (rappresentate di una ditta di alimentari), in una scena mangia sulla stessa tavola dove un bambino evacua in una casseruola senza che nessuno dei commensali provi disgusto. Tredici anni prima de La Grande Abbuffata, il corpo è già un involucro vuoto, un luogo di transito, anche se manca il trionfo dell’eccesso espresso dalla ricchezza, opulenza, grassezza dei piatti de La Grande Bouffe: Luis Buñuel ne parlò come di un «monumento all’edonismo» e alla «tragedia della carne». Un film gastronomicamente coltissimo grazie alla consulenza di Giuseppe Maffioli, gourmand, autore di numerosi libri nonché già caratterista del cinema, che nel film in un piccolo cameo interpreta uno chef, e grazie alle preparazioni di Fauchon, una gastronomia di Parigi. La grande abbuffata «non è un film sulla gastronomia, ma sulla società dei consumi, sulla crisi esistenziale, sul naturalismo umano, sulla mancanza di fede, su ogni cosa», scrive Tognazzi,  «ma ciò nonostante il cibo entrava nelle interpretazioni di noi attori, così come le nostre interpretazioni erano strettamente legate al cibo, se non addirittura determinate da esso». Se come afferma Feuerbach «l’uomo è ciò che mangia», è anche vero che nella lingua tedesca il verbo mangiare e il verbo essere differiscono nella scrittura di una sola s e si pronunciano in maniera molto simile, per cui si può leggere al contrario: l’uomo mangia ciò che è, come fa Ugo mangiando la pièce montée raffigurante la basilica di San Pietro. Intriso delle immagini della propria epoca, gli anni settanta (le basette lunghe, i pullover attillati, gli stivali lucidi al ginocchio, i toni psichedelici dei costumi lilla, viola, arancione, rosa), questa rappresentazione del declino della civiltà borghese e del potere patriarcale inizia a risentire dei temi proposti dal nuovo femminismo, che in quegli anni assume le dimensioni di un movimento di massa. Da qui in poi il soggetto femminile diventerà il costante polo positivo del cinema di Ferreri, mentre di quello maschile, portatore di una cultura obsoleta, verrà messa in scena la crisi. Se il cinema di Ferreri è ancorato al presente ed ha spesso anticipato il futuro, La Grande Abbuffata ne è la declinazione più nichilista, ché non c’è possibile riscatto né speranza con il suicidio. O, per dirla con Pasolini, la simbologia dell’assunto suicidio è incapace di sviluppi, cioè di proliferare metafore, produce riproduzioni e non evoluzioni. Come se ci trovassimo da allora in una perenne e un po’ triste abbuffata, mai sazi e neanche affamati, incapaci di trarne piacere.

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BAVARESE DI TETTE (sequenza finale).

Ingredienti:

latte, un quarto di litro.

vaniglina.

150 grammi di puré di fragole.

200 grammi di zucchero.

5 tuorli d’uovo.

20 grammi di colla di pesce

 

Far bollire dolcemente il latte, con un pizzico di vaniglina, in una casseruola.

In un altro recipiente mettere lo zucchero e aggiungere, uno per volta, i rossi d’uovo mescolando con un cucchiaio di legno. Versare poi il latte bollente amalgamando.

Mettere sul fuoco il composto, ma attenzione a non farlo bollire. Quando la crema si attacca al cucchiaio, e cioè quando lo “vela”, togliere la casseruola dal fuoco e aggiungere la colla di pesce che avrete precedentemente sciolto in acqua fresca per un quarto d’ora e strizzato con le mani.

Mescolare per amalgamare bene, aggiungere il puré di fragole, mescolare ancora, versare in due vaschette rotonde e porre in frigo.

Togliere dal frigo, rivoltare le vaschette l’una accanto all’altra.

Mancano i capezzoli. Provvedete con due ciliegine candite o, se li preferite più “liquorosi”, con due boeri.

 

 

Le ricette sono tratte da L’abbuffone. Storie da ridere e ricette da morire, di Ugo Tognazzi.