La lunga stagione delle stragi

Ci sono storie che fanno male. Che ti fanno montare una gran rabbia. Che di tanto in tanto devi smettere di leggere o di ascoltare o di guardare e chiudi gli occhi e scuoti la testa. O sbatti la mano sul tavolo. Magari piangi anche. Perché no, non si può, non doveva andare così. Succede nei romanzi, quando per esempio Anna Karenina fa la fine che fa. O nei film. Quando Sean Connery viene ammazzato negli Intoccabili. O quando Thelma e Louise scelgono di volare giù nel canyon e il fatto che si tengano per mano non è poi questa gran consolazione.

Nel libro di Roberto Saviano Solo è il coraggio (Bompiani, pagg. 586 – Euro 24) questa sensazione la si prova costantemente. Con una differenza sostanziale: malgrado il sottotitolo Giovanni Falcone, il romanzo, questo un romanzo vero e proprio non lo è.

Lo si può considerare tale forse per il tipo di narrazione più simile alla fiction che non alla saggistica, o per la ricostruzione dei dialoghi, che per quando realistici non possono essere considerati a tutti gli effetti veritieri. Ma quello che Saviano ha dato alle stampe è soprattutto un meticoloso lavoro di ricostruzione.

Una ricostruzione effettuata attraverso la lettura di testi, documenti processuali e testimonianze, elencata in una bibliografia di quasi 50 pagine che scende nel dettaglio di ognuno dei 75 capitoli. E il risultato è il racconto della vita di Giovanni Falcone e degli anni più sanguinosi di Cosa Nostra, culminati con l’attentato del 23 maggio 1992 a Capaci, dove assieme a Falcone persero la vita Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. Una strage che precedette quella del 19 luglio in Via D’Amelio a Palermo, dove morirono Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. E che nessuno, tra quelli che allora avevano l’età per ricordare, ma anche tra chi non era ancora nato, può o deve dimenticare.

Solo è il coraggio è la storia di un magistrato che oltre alla mafia dovette affrontare l’ostilità dei colleghi, di alcuni esponenti politici, di parte della stampa. Di un uomo che amava moltissimo la vita (lo avevano bollato con sarcasmo anche “il volto abbronzato dell’antimafia”, come se fosse una colpa…) ma che quella vita aveva scelto di metterla al servizio di un ideale di giustizia più alto con la consapevolezza, poi risultata tragicamente realtà, che qualcuno avrebbe potuto a un certo punto dire basta e decidere di farlo fuori, anche a costo di squarciare l’autostrada.

Ma la morte terribile di Falcone non è l’unico motivo per cui vale la pena leggere queste pagine. Una battuta di un vecchio spettacolo di Lella Costa, andato in scena ai tempi in cui Titanic di James Cameron faceva record di incassi, diceva più o meno: “Facciamo la fila per vedere un film pur sapendo che alla fine la nave affonda”. Ecco, chiunque prenda in mano Solo è il coraggio, il finale lo conosce già. Quello che però ha senso capire – e forse quel senso lo ha oggi più che allora – è come si è arrivati a quel cratere sull’autostrada e a quello di un paio di mesi dopo a Palermo.

Per capirlo bisogna immergersi nel dolore. Ripassare le storie di altri caduti, noti e meno noti. In ordine sparso: il generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa trucidato mentre era in auto con la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo; il poliziotto Boris Giuliano, colpito a morte mentre prendeva un caffè al bar; il magistrato Cesare Terranova e il maresciallo Lenin Mancuso freddati in auto come il commissario Antonino “Ninni” Cassarà, con l’agente di scorta Roberto Antiochia al quale va aggiunto l’altro agente di scorta, Natale Mondo, rimasto illeso in quell’attentato ma caduto in un’altra imboscata tre anni dopo; il magistrato Rocco Chinnici, uno dei padri del pool, che una 126 carica di esplosivo ridusse in brandelli con i carabinieri Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta e con Stefano Li Sacchi, che come colpa aveva quella di essere il custode dello stabile dove abitava il giudice; il magistrato Gaetano Costa, freddato da 6 colpi di P38 alle spalle mentre sfogliava dei libri su una bancarella in via Cavour a Palermo.

E questa è solo una parte dei caduti in una guerra senza confini, dove non ci sono dubbi su chi sta dalla parte della ragione, eppure permane la sensazione è che quella ragione non fosse sufficiente, almeno per qualcuno, per dare un aiuto più concreto e fermo a chi difendeva la giustizia.

C’è un passaggio, nel capitolo intitolato Verminaio ambientato nell’82, in cui Saviano dice:

Sembra che questo Stato sia ammalato, che alcune sue cellule si rivoltino contro di lui, e che il suo sistema immunitario – gli uomini come Costa e Terranova, per esempio – sia un apparato residuale, messo all’angolo dal proprio stesso organismo. Lasciato solo, infiacchito. Eroso passo dopo passo, mutazione dopo mutazione, finché diventa complicato distinguere la parte sana da quella marcia. Il lavoro di sabotaggio delle cellule buone è scientifico e graduale”.

E la domanda amara che, gonfi di rabbia e di commozione, viene da porsi alla fine della lettura è: oggi, decenni dopo quelle vite sacrificate su un ipotetico altare della giustizia, è davvero cambiato qualcosa?