La scrittura “in movimento” di David Grossman

Una delle domande che uno scrittore si sente spesso rivolgere è: “Com’è il luogo in cui si siede a lavorare?”. David Grossman, però, non si siede. “Io non riesco a scrivere da seduto, devo stare in piedi, ho bisogno di muovermi. Mi sembra che camminare porti ossigeno alla mia mente, mi dia un’energia nuova, cambi la definizione stessa delle cose. A volte mi costringo a rimanere seduto per scrivere, due minuti dopo mi ritrovo in piedi. E infatti il mio tappeto è tutto bruciacchiato dalle sigarette che fumo passeggiando”.

Il sessantottenne scrittore israeliano a inizio settembre è stato ospite – applauditissimo – del Festival della mente di Sarzana, il cui tema quest’anno era il “movimento”. Le sue peregrinazioni sul tappeto ben si sono prestate ad aprire l’incontro su Un mondo in cammino.

Chi ama i libri di Grossman – figlio, forse non a caso, di un autista di autobus – sa d’altra parte che, a partire da Vedi alla voce: amore, viaggi e spostamenti, nello spazio come nel tempo, ricorrono nella sua scrittura di titolo in titolo. Personalmente, l’esempio più struggente è quello di Orah, la donna di A un cerbiatto somiglia il mio amore, che esce e si mette in cammino perché il campanello di casa non possa suonare annunciandole la morte del figlio soldato.

Come sempre, però, la finestra autobiografica diventa per l’autore occasione di andare oltre, di spalancare lo sguardo sul mondo. E sulla storia del suo popolo.

Ho pensato che il bisogno di camminare possa dipendere anche dal mio essere ebreo, visto che l’ebraismo nasce dal primo ordine che Dio impartisce ad Abramo: ‘Vai e cammina, dalla tua casa fino alla terra che ti indico’. Quando i miei antenati sono venuti via dall’Egitto, dove avevano vissuto per secoli in stato di schiavitù, per arrivare a Canaan hanno impiegato quarant’anni, anche se in realtà bastano sette giorni: un tempo così lungo rappresenta forse l’intenzione divina che gli ebrei cristallizzassero la loro diversità attraverso il cammino”.

Dalla Bibbia il cammino verso l’epoca contemporanea non è lungo. Perché “questa è tutta la storia degli ebrei, che per moltissimo tempo non hanno avuto un luogo da poter chiamare casa. Abbiamo sempre sentito che la terra tremava sotto di noi, che la situazione poteva cambiare da un momento all’altro, anche nei Paesi più accoglienti. Oggi abbiamo uno Stato, ed è bellissimo avere una terra dopo duemila anni, dopo la Shoah. Tuttavia non siamo ancora a casa, abbiamo problemi con i nostri vicini che non ci accettano. Sono relazioni estremamente complesse, e possono essere chiarite anche attraverso la parola, la scrittura. Troppe volte mi sembra che Israele assomigli ancora a una fortezza e non abbastanza a una casa”.

In principio fu – appunto – il Verbo. La parola che, come David Grossman ha spesso ripetuto durante interventi in Israele e nel mondo (lo si può leggere anche nella raccolta Con gli occhi del nemico) serve a conoscere l’altro. Tanto più quando l’altro lo consideriamo il nemico: soltanto cercando di capire, dandogli lingua e pensieri, si può intravedere un incontro e forse una pace.

All’incrocio fra letteratura e politica c’è spazio anche per l’umorismo. Sottolineando l’importanza di raccontare e ascoltare storie, l’autore riporta un aneddoto. “L’altro giorno in taxi il conducente mi ha detto che compiva 70 anni. Gli ho risposto che li portava molto bene. ‘Ho ottimi geni – ha ribattuto – mia madre invece è morta a soli 35 anni’. Come mai? ‘È stata avvelenata… da mio padre’”.

Se una storia si può incontrare ovunque, la storia per eccellenza è quella che noi raccontiamo di noi stessi. Il rischio però, dice Grossman, è che a furia di ripeterla in qualche modo “ne diventiamo prigionieri”. Ci congeliamo in quel racconto: mentre la nostra vita cambia giorno dopo giorno (il tema forte è sempre il movimento), noi “ci condanniamo a rimanere bloccati nella stessa identità, non accettiamo punti di vista nuovi”.

È questo il punto di partenza del suo romanzo recente La vita gioca con me, la cui protagonista Vera “è una signora intrappolata nella sua drammatica storia”. Quando però la figlia e la nipote la portano nell’isola croata in cui era stata imprigionata e torturata durante il regime di Tito, “tornare lì e dover raccontare la storia con parole diverse fa sì che qualcosa in lei si apra, che non rimanga più intrappolata nel suo stesso vocabolario”.

Ancora una volta, il passaggio dalla fiction alla realtà è immediato: “Anche gli Stati dovrebbero imparare ad adottare parole nuove. Noi e i palestinesi siamo bloccati da decenni ormai in una storia che continuiamo ad affrontare sempre nello stesso modo. Ma non ci sarebbe niente di male se gli ebrei ascoltassero le ragioni della Palestina, non diventeremmo certo più deboli. È importante costruire un nuovo contatto con una realtà stratificata, fatta dalle vite delle persone. Invece la storia che si racconta è sempre la stessa: quanto siamo bravi noi e quanto cattivo è il nemico. In questo modo ci saranno ancora più guerre e ancora più sangue. Ma le cose possono davvero cambiare, si possono inventare nuove parole”.

Una visione di speranza? “Speranza è una cosa molto concreta: significa che crediamo ancora di poter cambiare le situazioni, siano queste una guerra, una pandemia, una qualche difficoltà. È così facile disperare, ma è un lusso che non mi posso permettere. Io vedo la mia famiglia o gli amici che dicono: non è che vogliamo spostarci a destra, però non vogliamo avere contatti con questa realtà, e così facendo si apre la strada ai fascismi, razzismi, terrorismi, fanatismi. Dobbiamo insistere nella speranza, non considerarla solo un piano B per tempi migliori, ipotizzare un futuro positivo per chi soffre”.