La serialità della monarchia vs l’unicità di Diana

Se sul regno di Carlo V non tramontava mai il sole, durante l’impero di Elisabetta II è stato impossibile cambiare piattaforma. Effetto diretto della serialità che ben si lega ai principi cardine delle monarchie: lo spettatore attento segue con avidità ogni sviluppo della trama, fino a diventarne suddito.

Le stagioni televisive, soprattutto, preferiscono i domini a lungo termine – con grandi protagonisti ed eventi già noti, quell’intreccio mai del tutto collaudato che si chiama Storia –  per non scoraggiare le produzioni, tenere allacciati fedelmente sceneggiatori e registi.

Il potere politico di una regina si vede anche da questo: cinque stagioni per The Crown, portate a termine fedelmente, quasi in concomitanza con la fine del vero mandato.

Elizabeth Debick è Diana nella quinta stagione di “The Crown”. Qui con indosso il famoso “revenge dress”

Diverso è quando un asteroide, in molto meno tempo, segue una traiettoria inattesa e non concordata dalla famiglia reale, stravolge i piani di lavorazione e impatta sul mondo mediatico, stravolgendo vecchi equilibri e occupando completamente l’immagine, meglio se un grande schermo: la vita di Diana Spencer.

La principessa del popolo” – People’s princess – come la definì l’allora primo ministro Tony Blair, poco dopo la sua morte. Una definizione ossimorica che racchiude tutte le contraddizioni e il fascino di Lady Diana: membro dei reali ma in opposizione, famosa in tutto il mondo e sempre in prima linea per la beneficienza ma con la voglia di sparire, sola ma amata da tutti, triste anche se i suoi sorrisi sono stati i più costosi pagati dalla stampa ai fotografi.

Una fragilità in opposizione all’universo formale e algido di Buckingham Palace, che ne ha sempre facilitato l’immedesimazione della gente comune. Spiega lo stand-up comedian americano di origine indiana, Hasan Minhaj, nel suo special King’s Jester:

In camera di mia madre, c’è la foto di nozze mia e di Beena. Proprio di fianco, c’è la foto della principessa Diana! E io: ‘Mamma, è morta nel 1997. Io sono tuo figlio. Come facciamo a essere uguali?’. E lei: ‘Hasan, tu non conosci la principessa D. Lei era splendida. E la suocera era cattiva. E suo marito era freddo’. E io: ‘Mamma, stai descrivendo il tuo matrimonio?’” .

Una vita breve con grandi ascese e cadute. Dal matrimonio con Carlo alle apparizioni pubbliche, dai filmati dell’incidente di Parigi al funerale faraonico nell’abbazia di Westminster, tutto quello che inconsapevolmente Diana ha scritto con il suo corpo e la sua presenza è stato marchiato dall’unicità, un ineguagliato primato di empatia, sorpresa e carisma.

Kristen Stewart nella parte della principessa Diana nel film “Spencer” di Pablo Larraín

Tutto quello che richiede il cinema per esserne un protagonista. Non è un caso che proprio per le sue esequie, numerosi attori e registi vi abbiano partecipato: Steven Spielberg, Tom Hanks, Nicole Kidman, Tom Cruise, per citarne alcuni. Sembrava tutto vagamente surreale, un sogno invece della vita vera“, come scrive Elton John nella sua autobiografia Me (Mondadori, 2019). Diana Spencer non è ripetibile, non si presta a diventare serie, occupa tutta l’immagine con naturalezza, sposta l’attenzione, crea l’inatteso allontanandosi dalla replica. Soprattutto non si lascia definire con facilità.

Un esempio è il film Spencer (2021, disponibile su Prime), diretto da Pablo Larraín. Persa nelle campagne di Norfolk, dove era nata, Kristen Stewart/Lady D. continua a ripetersi: “Dove sono?” e a sentirsi chiedere da chi la incontra, come se fosse un’apparizione: “Che cosa ci fa lei qui, Diana?”.

Il regista cileno sottolinea più volte quanto la figura della principessa sia fuori posto, condannata a vagare nelle stanze fredde della residenza Sandringham per le vacanze di Natale, in preda alle visioni e alle paranoie per le cospirazioni di corte. Una dimensione in cui “non c’è futuro, passato e presente sono uguali”. Proprio come nel precedente Jackie, dedicato alla first lady durante i giorni della presidenza Kennedy, Pablo Larraín ama giocare con le illusioni infrante, racconta l’utopia di una Camelot che velocemente si trasforma in un incubo.

Un’altra immagine di Kristen Stewart nella parte della principessa Diana

Così Lady D. tenta più volte la fuga, sia dal palazzo che dalle convenzioni imposte dalla regina, ma è sempre destinata a soccombere: “Ho cercato di evadere. Mi hanno catturata”. Sarà lo stesso regista nel finale a regalarle la libertà, un puro atto d’amore: come Marco Bellocchio con Aldo Moro in Buongiorno, notte e Quentin Tarantino con Sharon Tate in C’era una volta a… Hollywood, Larraín le concede un finale alternativo, mangiando patatine, bevendo Coca – Cola con i suoi figli, ascoltando a tutto volume una canzone di Mike + The Mechanics, perché ognuno può dire “Tutto quello di cui ho bisogno è un miracolo”. Anche le principesse.

Se in Spencer Lady D combatte per la fuga, in The Queen (2006, disponibile su Prime) di Stephen Frears è Helen Mirren/Elisabetta II a combattere con il fantasma della principessa e la sua eredità. Nei giorni successivi all’incidente nella galleria del tunnel sotto il Pont de l’Alma, la regina assiste al rapido sgretolarsi della credibilità della monarchia per il popolo della Gran Bretagna.

Chiedile che cosa ha fatto ai freni” ironizza un collaboratore di Tony Blair con il primo ministro, ma tutti gli inglesi, dai giornali – “Dimostrate di avere un cuore voi Windsor” titola il Sun, “La prova che i reali non sono come noi” il Mirror, “È tempo di un cambio della guardia a Buckingham palace” l’Express – a chi porta fiori fuori ai cancelli del palazzo reale, si chiedono come sia possibile che gli Windsor non abbiano interrotto le loro vacanze a Balmoral, rotto il silenzio con un messaggio alla nazione e neanche alzato la bandiera a mezz’asta in segno di lutto.

Helen Mirren in “The Queen – La regina” di Stephen Frears (2006)

Lady D, completamente assente nel film, appare dai filmati di repertorio sorridente e nel pieno della sua bellezza, un’apparizione che perseguita la regina dai telegiornali e che non fa altro che sottolineare i limiti, ormai infranti del suo mandato: la distanza dalla gente comune. Più Elisabetta II non fa che replicare “È una faccenda privata”, più Lady D occupa la scena, e il dolore diventa insanabile – “Sembrava che le persone si crogiolassero nella sua morte, come se il lutto fosse andato fuori controllo e si rifiutassero di andare avanti” scrive sempre Elton John nell’autobiografia.

Sarà per non mettere a rischio la monarchia che alla fine la regina si inchinerà alla memoria della principessa, al volere del popolo, alla parola e alla presenza. Sempre per un bene supremo, un ordine di mandato, mai per affetto. Una vittoria per la principessa assente, finalmente la rottura delle convenzioni reali.

E se anche qualche tentativo non è andato a buon fine, come Diana – La storia segreta di Lady D (2013) del regista tedesco Oliver Hirschbiegel – che il giornalista David Edwards del Mirror ha definito uno “sforzo deprimente e a buon mercato che pare un film televisivo di metà mattinata” – Diana Spencer resta protagonista singolare e indiscussa, la regina della narrativa popolare su grande schermo, l’interprete di un’eversione ai canoni prestabiliti. Quello che anche il cinema a volte dimentica di fare.