La società della correttezza educante

Frank Zappa non è mai esistito. Che il 19 settembre 1985 arringasse in un’udienza parlamentare a difesa della libertà d’espressione, è una circostanza mai accaduta negli Stati Uniti. L’episodio riguardava la controversa proposta del Parents Music Resource Center di apporre un adesivo – il famigerato parental advisory – agli album musicali dai contenuti diseducativi. L’ente promotore era capeggiato da Tripper Gore, moglie di Al che ben prima di diventare insieme a suo marito paladina del green washing, predicava nuovi orizzonti di salvezza morale nello speech washing, il lavaggio a secco delle espressioni linguistiche al fine di smacchiarne gli espliciti riferimenti sessuali, le incitazioni violente e ogni traccia di terminologia offensiva. Nel suo intervento al senato, Zappa si fece portavoce del punto di vista dei musicisti: rivendicò la totale libertà dell’artista, accusò il Parents Music Resource Center di voler sterilizzare l’arte, addomesticarla, rivolgendosi provocatoriamente a Tripper Gore e alla sua accolta inquisitrice con un linguaggio scorrettissimo, definendole «casalinghe in malafede» e ancora «rigide signore in preda a nevrosi sessuali». Malgrado le strenue obiezioni di Zappa, il bollino parentale fu comunque introdotto a partire dal dicembre successivo ma sotto forma di adesione volontaria delle case discografiche; un trucchetto per farlo passare per un atto spontaneo di responsabilità civile e non come una forma di proscrizione censoria imposta dall’alto. I liberal hanno questo di bello: quando limitano la libertà di espressione, lo fanno per insegnare a qualcuno il rispetto per qualcun altro.        

Il parental advisory rientrava appieno nel grande progetto moderno della società educante, un modello pedagogico proposto fin dagli anni sessanta da Aldo Agazzi, luminare della pedagogia internazionale secondo il quale tutti i settori della società, compresi i mass media e gli operatori culturali a ogni livello, sono chiamati a svolgere in sinergia una funzione educativa comune, realizzando il sogno/incubo di vivere in una grande scuola dell’infanzia in cui tutti trattano tutti come bambini ipersensibili da accudire e preservare, una Disneyland del vittimismo narcisista dalla quale non si esce mai davvero adulti.      

In una società del genere a farne le spese non può essere che la libera espressione artistica. Con l’avvento di un ordine educante il palcoscenico estetico si riduce in modo inversamente proporzionale a quello etico, poiché tutto ciò che è considerato diseducativo tende ad autoescludersi dalla presentabilità pubblica. Diventa osceno, rimane cioè letteralmente fuori dalla scena. A questo processo autoesiliante contribuisce il politicamente corretto, che della società educante è il braccio armato col sorriso amorevole stampato in bocca, benché non siano pochi gli articoli di area progressista che si sono recentemente affrettati a negarne l’esistenza, spiegando che il politically correct è soltanto un nemico immaginario, un falso mito inventato dalla destra.     

Negare la questione del politicamente corretto significa negare la Cultura del piagnisteo, sardonico titolo di un libro di Robert Hughes, pubblicato nel 1993 che sembra scritto domani mattina. Hughes esamina l’ascesa del politicamente corretto nella società americana a partire dai centri accademici di produzione culturale, dove dagli anni settanta l’egemonia della filosofia post-strutturalista, intesa a considerare il linguaggio non più uno strumento impersonale bensì una forma simbolica oppressiva nei rapporti di potere, aveva scoperchiato il pentolone dentro il quale già da decenni ribollivano le radici puritane statunitensi. Per alcuni osservatori coevi, come lo storico Eugene Genovese, nelle università americane era addirittura in atto un nuovo maccartismo che all’epurazione dei comunisti sostituiva la caccia ai docenti rei di aver usato espressioni razziste, omofobe, sessiste o affrontato argomenti disciplinari con un taglio ritenuto potenzialmente discriminatorio. «Che oggi nelle università americane quasi tutti i docenti di materie umanistiche vengano assillati (a dir poco) da rivendicazioni politicamente corrette, e abbiano bisogno di una robusta indipendenza di spirito, non è una fantasia della destra» scrive Hughes già trent’anni fa, ma – ricordiamolo – per il sussiegoso conformismo murgiano sia lui sia Frank Zappa sono soltanto l’ennesima manifestazione di quelle supposte fantasie. In tal senso anche il fenomeno noto come cancel culture – se si vuole, uno spin off della saga del politicamente corretto – non è che l’estensione di quello stesso puritanesimo accademico al dibattito culturale europeo, dove pure si comincia a fare il vuoto intorno alle persone accusate di aver avuto atteggiamenti discriminatori, esattamente come accade al professor Coleman Silk in La macchia umana di Philip Roth.    

Secondo Hughes, la cultura politically correct antepone i sentimenti personali all’analisi critica, fondandosi su una mal posta accezione tutta americana del concetto di uguaglianza, che più realizza se stessa e più diventa insaziabile come rilevava già Alexis de Tocqueville nel 1835, col risultato di aver accordato un’eccessiva indulgenza nella formazione universitaria all’espressione personale e all’autostima, promuovendo un’epistemologia al ribasso che, per non ledere le pari opportunità, sostituisce la logica, l’analisi, la documentazione, l’argomentazione, la contestualizzazione storica e l’ermeneutica con la sensibilità personale: «quando gli stati d’animo sono i principali referenti di un’argomentazione, attaccare una tesi diventa automaticamente un insulto a chi la sostiene, o addirittura un attentato ai suoi diritti o supposti tali; ogni argomento diventa ad hominem e rasenta la molestia, se non la violenza vera e propria». Hughes scrive dal passato ma descrive il suo futuro, ovvero il nostro presente: «provate a tramandare questa soggettivizzazione per due o tre generazioni di studenti che poi diventano insegnanti, e avrete il background entropico della nostra cultura del piagnisteo».

Oggi più di trent’anni fa il piagnisteo politically correct dispensa cioccolatini di galateo lessicale e circonlocuzioni eufemistiche illudendosi di poter rimediare alle disparità cambiandone il nome. Non siamo molto distanti dalla neolingua orwelliana che spalleggia la menzogna politica in una lotta contro la realtà funzionale tanto alla sinistra progressista quanto alla destra conservatrice. Lo schema politico attualmente in atto è soltanto un dejà-vu delle dinamiche politiche americane tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta, quando i progressisti iniziarono a impostare le loro campagne politiche sui valori morali e sui diritti civili, lasciando ai conservatori l’egemonia ideologica in materia economica, dove la neolingua politicamente corretta rese un ottimo servizio alla teoria liberista della trickle-down economy, trasformando parole brutali come licenziamenti in tecnicismi garbati quali ottimizzazione delle risorse. Nonostante la neolingua venisse usata da entrambi gli schieramenti, Hughes sembra essere profetico prevedendo l’esacerbazione del dibattito intorno al politically correct a tutto vantaggio delle destre neoconservatrici, abili ad abbindolare gli elettori arrabbiati della working class e della classe media con la sua propaganda antimoralista. Quello su cui Hughes invece è stato meno profetico è la fiducia che quel tipo di moralismo fosse prerogativa esclusiva del puritanesimo anglosassone e mai avrebbe attecchito sulle lingue neolatine.  

Invece, complice anche l’avvento dei social, gli schemi polarizzanti americani hanno soppiantato il senso critico anche nel dibattito pubblico mediterraneo.  Nel 1976 Paul Watzlawick – psicologo della scuola di Palo Alto e studioso di prammatica della comunicazione – in un suo libro si chiedeva quanto il reale fosse reale, How real is real?, evincendo l’esistenza di più realtà: quella fisica – verificabile attraverso la prova sperimentale – e quella costruita attraverso la comunicazione, che essendo soggetta a disturbi come la confusione, la disinformazione e la selezione, ne crea altre, ognuna valida e perciò capace di affermarsi al punto da configurare polarizzazioni cieche: «la convinzione che la propria visione della realtà costituisca l’unica realtà è un’illusione pericolosissima. Diventa ancora più pericolosa se accoppiata allo zelo missionario di illuminare il resto del mondo, che il resto del mondo lo voglia o no». Ora da una parte abbiamo gli illuminati, i buoni che portano il fuoco di una nuova arcadia civile, dall’altra abbiamo gli sciacalli, che ballando sulle rovine culturali create dai liberal si accontentano di elevare il turpiloquio fine a se stesso a libertà d’espressione, non capendo che la battaglia sacrosanta contro la società della correttezza educante non va fatta per difendere la libertà di usare a gratis la parola frocio perché tanto, dai, fa ridere, bensì quella di Anthony Burgess di scrivere Il seme inquieto.      

Chiunque provi a inserirsi in questa isterica guerra sentimentale con argomenti critici diventa, a seconda dei casi e degli schieramenti, un buonista o un razzista, un rossobruno o un omofobo, etichette capaci di mandare in vacca le discussioni serie, necessarie, intorno al politicamente corretto. Che non è una dittatura, come ci tiene a precisare Zerocalcare in modo salomonico, per non dire democristiano, per non dire paraculo. In effetti è ben peggio: un’ipnosi narcisista, un’infatuazione moralista ed elitaria per quella parte di sé che a furia di voler cancellare messianicamente il brutto e il male dal mondo, si trascina dietro il bello degli abissi e il bene dell’ombra. 

Quando l’esercito murgiano afferma compatto che il politically correct non esiste, con quella negazione sta in realtà già legittimando il nuovo paradigma autocensorio, segnalando il lato giusto della barricata da cui stare se si vuole essere considerati artisti e intellettuali rispettabili. In un clima dove chiunque, per una parola infelice o un’espressione sopra le righe, rischia l’accusa di razzismo, sessismo o omofobia, quale odierno Anthony Burgges – ammesso che oggi ce ne sia uno – oserebbe immaginare una distopia dove regna il Potere dell’Infecondità Omosessuale e quanti editori gliela pubblicherebbero? Quale Honoré Daumier raffigurerebbe il re Luigi Filippo come un Gargantua grasso e ingordo, esasperandone i difetti fisici per mostrarne le abiezioni politiche come da prassi nella satira, sapendo di incorrere in accuse di body shaming dalle quali dovrà pubblicamente discolparsi? Quale Jello Biafra reinventerebbe l’hardcore chiamando la sua band Dead Kennedys, i Kennedy morti, senza attirarsi il boicottaggio dei nuovi benpensanti per incitamento all’odio? Non si tratta della censura storicamente detta, quella per intenderci di cui in un passato più e meno lontano fecero le spese Michelangelo e Pasolini, ma una forma di autocensura preventiva, un intervento di castrazione che il soggetto impone alla propria libertà di esprimersi e creare onde evitare di risultare indigesto, diseducativo, insensibile e becero, pagandone le conseguenze in termini di stigmatizzazione sociale e professionale. Finché abbiamo ancora qualche artista autonomo e almeno un paio di pensatori coraggiosi il problema forse non si pone nemmeno, ma quando entro due o tre generazioni l’oppio della società educante avrà stordito l’ultimo impeto anticonformista, spento i residui fuochi ribelli, mortificato ogni ardore cinico, resterà l’appiattimento espressivo, il monismo culturale di una scolaresca di mocciosi che cantano in coro tutti la stessa filastrocca.     

La società della correttezza educante è un’impresa totalitaria intrisa di vanagloria etica, una chiesa laica invasata dall’ideale. I suoi adepti vorrebbero estirpare il male dal mondo, eliminare l’odio, che è pur sempre un sentimento umano e fintanto che non si trasforma in azione il compito dell’artista come quello di chiunque altro è renderlo produttivo, giacché non sarà certo il nostro amore di riserva a estirparlo. Il seme cattivo bisogna che sbocci, insegna James Hillman, e tutto quello che un educatore può fare è dargli sfogo, incanalare la sua energia distruttrice in maniera costruttiva. La società della correttezza educante, invece, usa la falciatrice, sempre la stessa, gattopardesca: i moralisti che un tempo rimbrottavano da destra Philip Roth per la satira abortista a Richard Nixon, oggi da sinistra invitano a ripensarne l’opera a causa della sua visione sessista.     

La società della correttezza educante esige modelli di vita, non poeti, non i toccati dal fuoco, non i Maradona o i Lord Byron, quel genere di uomini capaci di accendere le vite degli altri soltanto al prezzo del proprio bruciare. La sua azione è diserbante e retroattiva, finora non ha risparmiato nemmeno Gauguin, Schiele o Balthus in un revival globalizzante di quell’istanza femminista che negli anni ottanta ottenne dall’università della Pennsylvania la rimozione di una riproduzione della Maja desnuda di Goya.

Nella società della correttezza educante non c’è posto per Céline che descrive le donne come possibilità di stupro, per Papini che incarna in Gog il suo sentimento antimoderno e antisemita, per Tolstoj che riscrive La sonata a Kreutzer di Beethoven con le mani di un uxoricida.      

Nella società della correttezza educante tradurremo Storia dell’occhio di Bataille in fogli illustrativi redatti dai medici californiani che hanno preso a chiamare la vagina buco anteriore per non offendere le persone transessuali che non si riconoscono nelle etichette attribuite dalla comunità medica ai loro genitali; metteremo un disclaimer alle bambole deformi di Hans Bellmer per scongiurare di consacrarle al mattatoio della libido maschilista; ci trapianteremo cornee di castità per resistere al voyeurismo del Bagno Turco di Ingres, quel vecchio colonialista bavoso che inventò il gloryhole prima di Youporn spiando femmine orientali come fossero puttane di Raffaello. Ci metteremo al riparo dalla nostra turpitudine, adatteremo l’arte a specchio del nostro ego che riflette immagini ideali del bisogno di essere ammirati, abiureremo tutto il bene che nasce attraversando il male: il profeta Jona scende nell’antro oscuro della balena, il dottor Faust segue Mefistofele, junghianamente la sua Ombra, quella forza che col «consenso del male opera per il bene».  
Abbiamo bisogno di parole pericolose e maestri oscuri, che per salvare il mondo bastano gli evangelisti.