La “valigia universale” di Sergej Dovlatov

Solo un fondale bianco, arredato di sedia e camicia. A guardare il palco nudo, allo spettatore sembrerà di trovarsi all’interno della sacca che contiene le storie di Sergej Dovlatov, per l’allestimento de La valigia – regia di Paola Rota, con Giuseppe Battiston dal 23 febbraio al Teatro Nuovo di Napoli e poi all’Ambra Jovinelli di Roma.

Lo spazio dove si muovono le descrizioni, ironiche e ciniche, dello scrittore russo si trasforma in un luogo universale, che appartiene ad ognuno quando occorre selezionare materialmente un passato pronto a dissolversi: costretti a una emigrazione, cosa custodire e cosa lasciarsi alle spalle.

Tutti i libri di Sergej Dovlatov sono pubblicati in Italia da Sellerio

Ed è per questo che, disseminati in diversi punti dell’azione scenica, microfoni, a collo d’oca e panoramici, su treppiedi e completi di cuffie, lasciano che dalle parole gli oggetti selezionati per i racconti, prendano forma e volume.

Accompagnato dalla musica in notturna, come il deejay radiofonico di New York, Jack Lucas, de La leggenda del re pescatore (1991) di Terry Gilliam, Sergej Dovlatov/ Giuseppe Battiston, si abbandona al jazz e alle storie della sua valigia. L’unica che l’Ufficio per l’espatrio di Leningrado gli permette di riempire prima di trasferirsi negli Stati Uniti.

Un posto dove hanno trovato spazio: un vestito a doppio petto; una camicia di popeline e delle scarpe avvolte nella carta; un giubbotto di velluto a coste e un colbacco in simil-gatto; tre paia di calzini finlandesi in crespo sintetico; guanti da automobilista e una cintura in pelle di ufficiale. “Era tutto ciò che avevo messo insieme in trentasei anni” conclude Dovlatov “durante tutta la mia vita in Russia. Pensai: ma davvero è tutto qui? E risposi: sì, è tutto qui“.

Attraverso il filo narrativo che lega gli oggetti, l’immagine di Battiston, che riporta immediatamente a corporatura e lineamenti dello scrittore – “la fronte sottile, la barba lunga, l’aspetto di un torero squalificato” – ricostruisce in scena i temi centrali dell’opera Dovlatov. Come già Aleksej German jr. nel suo film Dovlatov.

I libri invisibili (2018), lo spettacolo di Paola Rota mette a fuoco la decadenza brezneviana e la propaganda sovietica, il lento delinearsi di un paese molto lontano dalla narrazione che ama ripetersi: una Russia in cui non si è abbattuta la diseguaglianza sociale, ma nuovi ricchi e nuove caste dopo l’impero hanno preso il sopravvento. Un universo in cui inizia a essere guardato con maggior sospetto chi non indossa un vestito adatto alle circostanze e preferisce la compagnia di “selvaggi, schizofrenici e carogne“.

Ma anche nella tragicità più esasperata –  il colpo in testa ricevuto dalla fibbia della cintura – lo scrittore, e Battiston di conseguenza, sa conservare uno sguardo indulgente verso un’umanità disarmata e fragile, ma soprattutto un’ironia capace di demolire capi di redazione e registi di avanguardia.

E guidando lo spettatore tra il mondo del contrabbando e sbronze alla vodka, Battiston si moltiplica e dà voce anche a false madri-eroine e cugini ubriachi, soldati semplici e detenuti destinati al manicomio.

Senza sforzo, entra ed esce dai personaggi, cambia tono, mimica e altezza, in un esercizio di trasformismo e ritmica, che non tutti sarebbero in grado di affrontare, soprattutto custodendo così gelosamente tempi comici, umorismo e un leggero accento slavo, che a Carlo Mazzacurati non sarebbe affatto dispiaciuto.

È un’operazione così semplice nel teatro italiano da poter apparire rischiosa la messinscena de La valigia con la regia di Paola Roca. Si riporta al centro il testo, al netto di costumi proiezioni ed effetti, si mette a fuoco un autore che meriterebbe di essere riscoperto e letto – tutti i libri sono stati pubblicati per Sellerio – perché Sergej Dovlatov non scriveva la parola libertà pensando alla mancanza di freni del sistema capitalistico, ma ne custodiva un’immagine più naturale: “andare a zonzo per le strade di Leningrado, fumare una sigaretta sulla panchina davanti al palazzo della Duma“.

L’attore si diverte a trasformarsi, cambiare voce e forma, in un gioco di ruoli che permette al pubblico di intrattenersi ma senza difficoltà anche di riflettere: quanto è distante la Russia sovietica dalla putiana attuale? E quanto sforzo ci vorrà per riavvicinarsi e ricucire i rapporti con una tradizione culturale così variegata e complessa?

Ricordatevi di metterla in valigia, suggerirebbe Dovlatov.