La vera storia di Stella Rimington, la direttrice dei servizi segreti britannici

La cover di Open Secret, l’autobiografia di Stella Rimington, rappresenta la tradizionale eccezione alla regola. In questo caso, parliamo della norma per cui non si dovrebbe giudicare un libro dalla copertina.

La foto in bianco e nero è un ritratto dell’autrice, ovvero dell’ex direttrice generale dell’MI5, i servizi segreti britannici addetti a garantire la sicurezza interna.

La Rimington è colta nell’atto di abbassare un paio di occhiali da sole che – sarà autosuggestione – mi sembrano perfetti per una spia, e guarda dritta nell’obiettivo, quindi negli occhi di chi tiene in mano il libro, con un’espressione tra l’indagatore e il beffardo.

Open Secret, uscito in Gran Bretagna nel 2001, dove è stato, comprensibilmente, un bestseller (ed è finito al centro di un intrigo degno di un film di spionaggio di cui racconterò in seguito), in Italia non ha trovato un editore. Da noi, infatti, sono usciti solo un paio dei dieci romanzi di spionaggio scritti dalla Rimington dopo aver lasciato i servizi (A rischio e Azione illegale, editi entrambi da Dalai). Mentre in Inghilterra, l’ultimo, finora almeno, è The Moscow Sleepers, uscito nel 2018.

Stella Rimington, oggi, ha 86 anni e, da tempo, non rilascia interviste.

Io l’avevo incontrata anni fa a Londra per un’intervista e, per l’occasione, mi ero letta la sua autobiografia per documentarmi. Solo di recente, però, ho ripreso in mano il libro e notato la corrispondenza tra quella foto di copertina e la personalità di chi lo ha scritto.

La storia della Rimington è straordinaria. La prima donna a dirigere i servizi segreti britannici (dal 1992 al 1996) è nata il 13 maggio del 1935 in una “casetta con giardino nel quartiere periferico di South Norwood”, a meno di un’ora da Londra. Un avvio di vita tranquilla in una zona altrettanto paciosa che sarebbe durato poco: “Avevo quattro anni quando tutto cambiò, il mondo era in guerra”, scrive.

Quanto segue nelle pagine seguenti è la narrazione di un’esistenza che lei stessa avrebbe fatto fatica a immaginare: “La mia scelta di una carriera noiosa e sicura finì per portarmi a diventare la direttrice dei servizi segreti del mio Paese e un bersaglio per i terroristi”.

Tutto, racconta, cominciò con l’incontro con John Rimington, “sull’autobus che prendevo per andare a scuola”: l’uomo che sarebbe diventato suo marito nel 1963 (fino alla separazione 21 anni dopo) e che seguì in India come ogni brava moglie (di allora), dove era stato chiamato come diplomatico nel 1965, “soltanto 18 anni dopo la dichiarazione d’indipendenza”.

È a Delhi che la Rimington, annoiata dalle chiacchiere con le altre consorti e “non abituata a essere identificata solo come la moglie di”, due anni dopo colse al volo l’occasione di un lavoretto: “Uno dei segretari dell’Alta Commissione, che sapevo occuparsi di segreti, non di quali esattamente dal momento che nessuno era incoraggiato a fare quel genere di domande, mi chiese, nel caso avessi un po’ di tempo libero, se potevo considerare l’idea di dargli una mano in ufficio”, scrive nel libro.

Venne fuori che il baronetto che le aveva offerto un impiego, “era il rappresentante in India dell’IM5”. Sigla di cui, all’epoca, “avevo una vaga idea del significato. Per questo, prima di cominciare, mi diede un opuscoletto da leggere: cinque o sei pagine nella quali si spiegava che l’IM5 faceva parte del sistema di difesa britannico, con lo specifico compito di garantire la sicurezza nazionale rispetto a gravi minacce come lo spionaggio o atti sovversivi”, scrive. Aggiungendo che la parola “terrorismo” ai tempi non era ancora praticamente usata.

Dopo un anno di “lavoro non particolarmente eccitante”, per lo più come dattilografa e archivista, Rimington, altrettanto casualmente, venne assunta per un breve periodo all’IRD, Information Research Departiment (sempre roba di spie). Incarico che, nel libro, liquida in poche righe prima, definendolo “noioso”, prima di raccontare, più diffusamente, il viaggio da Dheli a Kabul che sarebbe stato anche il suo addio all’India in vista del rientro in Gran Bretagna: “Avevo letto Kim di Kipling e volevo visitare l’area dove il Grande Gioco era cominciato”.

Riassumere come da dattilografa a tempo determinato la signora Rimington riuscì a scalare i vertici dei servizi britannici sarebbe davvero troppo lungo (e vi toglierebbe la curiosità di leggere il libro). Rimane il fatto che la sua avventura è stata e, probabilmente, rimarrà unica, nonostante come mi fece notare durante quell’intervista, oggi il reclutamento delle spie sembri più “democratico” di un tempo: “Quando ho iniziato io bisognava che qualcuno interno ai servizi venisse a cercarti e ti proponesse di entrare. Oggi puoi fare domanda sul sito Internet. C’è un elenco di figure professionali che vengono richieste: avvocati, esperti di elettronica, e così via”.

All’epoca della sua nomina, però, a far scalpore non era stata la sua incredibile ascesa, quanto la semplice evidenza che fosse una donna, la prima donna direttore dell’MI5 e anche il primo capo dei servizi il cui nome veniva rivelato con un annuncio da parte del governo. “Volevano fare un’operazione di trasparenza. Ma anche far capire che c’era assoluta parità tra i sessi. Il mio nome venne fatto anche perché ero una donna, ma credo non avessero previsto che si potesse trattare di una notizia così sensazionale”.

Peccato, come racconta anche nel libro, che nella fretta di dare la notizia, non l’avessero neppure preavvertita: “L’annuncio fu fatto simultaneamente alla mia nomina. Non venne fatto un piano di comunicazione ai giornali e alle televisioni, fui lasciata sola a fronteggiare una vera e propria invasione di giornalisti davanti a casa. Misero in pericolo me e la mia famiglia: la più giovane delle mie figlie, che allora aveva 17 anni il cane e io dovemmo andarcene velocemente di casa, notte tempo, mentre la più grande era all’Università. Non ebbi neppure il tempo di avvisarla di quello che stava succedendo, lo venne a sapere dalla televisione”.

Molti anni dopo, anche la pubblicazione di Open Secret (“L’ultima cosa che avrei mai immaginato è che un giorno avrei potuto scrivere la mia autobiografia”) divenne un caso sensazionale. Le bozze del libro, mandate in approvazione ai vertici dei servizi per verificare che le pagine non contenessero notizie riservate, furono trafugate da qualcuno dei suoi ex colleghi e mandate al Sun.

Chi aveva il compito di leggere il manoscritto ed eventualmente eliminare le parti che era meglio non rendere pubbliche, pensò, invece, di farlo avere alla stampa. Il paradosso è che mandarono una versione non “ripulita” perché, in realtà, il loro obiettivo era far sì che il libro non fosse pubblicato. Il Sun, a sua volta, non sapendo che cosa fare, mandò le bozze al 10 di Downing Street. E così un libro che, nelle mie intenzioni, non doveva apparire nulla di sensazionale divenne un caso”, racconta.

Decisamente meno rumore hanno suscitato, invece, i suoi romanzi di spionaggio. Persino troppo poco, a dire il vero. Le spy story della Rimington avrebbero meritato più successo, se non altro per il fatto che in quelle pagine ha fatto confluire la sua esperienza sul campo: “Sto molto attenta a quello che succede nel mondo perché voglio che i miei libri siano il più possibile realistici e aggiornati rispetto a ciò che accade nella realtà, e a quelle che sono le minacce reali con le quali i miei ex colleghi si confrontano davvero».

Minacce talmente ben documentate che, mi spiegò, “sono tenuta a sottoporre ai responsabili dei servizi i miei libri prima della pubblicazione per essere sicuri che non abbia inavvertitamente o involontariamente scritto qualcosa che possa creare problemi. A volte, ho dovuto cambiare luoghi. E persino nomi. Può sembrare incredibile, ma è capitato che abbia inventato nomi che esistevano nella realtà”.

Il giorno del nostro incontro, sapendo oltretutto che a lei era ispirato il personaggio di M, interpretato da Judy Dench in 007 – Goldeneye del 1995, (“Era davvero simile a me”, dice. “Voglio dire nell’aspetto esteriore: gli stessi vestiti, le stesse scarpe, con il tacco quadrato, lo stesso taglio di capelli”) non potei fare a meno di chiederle che cosa ne pensasse di 007. “Adoro i libri di John Le Carré. Molto meno quelli di Ian Fleiming. Non dico che James Bond non sia divertente, il problema è che la gente crede che sia un personaggio realistico. Provi a chiedere a chiunque nel mondo: Qual è la prima cosa che ti viene in mente parlando di servizi segreti? Le risponderanno: “James Bond, l’agente segreto al servizio di Sua Maestà. È questo, sinceramente, a darmi fastidio”.