Le illusioni perdute del Mediterraneo

Era tra le stagioni più promettenti e bugiarde di ogni tempo: quella dell’euforia alla fine della Guerra Fredda – dopo lo smantellamento dell’Impero sovietico, la riunificazione della Germania, la conclusione dell’Apartheid in Sudafrica.

I primi dei ’90, quando, nel vicino Oriente, sembrava possibile perfino l’avvio di un processo di pace arabo – israeliano, matrice di tutte le speranze. Alberto Negri, poi una vita al Sole 24 ore, reporter – il “chierico vagante dei nostri giorni“, secondo una bella definizione che diede un giorno Sergio Romano- cominciava il mestiere (andare su scena, vedere che succede, provare a raccontare un pezzo di verità) in quella temperie illusoria. E ora che sono trascorsi trent’anni, ora che tutto è cambiato e le malie di quella stagione, così crudelmente, hanno lasciato cadere il velo, si legge come una testimonianza di quello che abbiamo perso, quasi con malinconia, il libro che Negri ha appena dato alle stampe per Gog: Bazar Mediterraneo, 150 pagine, 15 euro.

7 capitoli e 8 città – Algeri, Tripoli, Bengasi, Beirut, Alessandria d’Egitto, Salonicco, Tangeri, Istanbul – raccontate in momenti capitali della storia recente.

Luoghi come tappe ideali di un percorso lungo tutta la sponda sud del Mare Nostrum, scena centrale, ineludibile, per provare a comprendere, seguendo tracce che non ti aspetti, il nostro presente; sono cammei, ritratti urbani, pagine capaci di unire storia, letteratura, il racconto di personalità fuori dall’ordinario; si mischiano segreti, scoop, passi diaristici emozionanti in questo particolare memoir.

La febbre delle democrazie, bene fragile, e il fervore fondamentalista, sempre montanti ai nostri giorni, sono il contesto di riferimento. Per contrasto, è possibile intravvedere, come un filo d’arianna, la rinuncia – tutta europea – a una vocazione culturale, a un’economia ragionata e non ipercapitalista, a una vera politica, a essere insomma ponte, soprattutto rispetto a quel mondo atlantico sempre troppo desideroso di egemonia (cui si è preferito asservirsi), a più riprese goffo e aggressivo oltre ogni misura, più che mai dopo le presidenze Clinton e Bush.

Emerge anche la patetica mancanza di strategia della più recente politica estera italiana, neppure lontanamente erede di una tradizione fuori dagli schemi: eravamo il Paese capace di rompere il cartello petrolifero con l’agenzia italiana per gli idrocarburi, con una diplomazia piacevolmente outsider nel contesto internazionale del Sud Mediterraneo, capace di mantenere un canale aperto con la realtà palestinese. Tutto questo oggi è solo memoria dopo che si è scelto di diventare aggressori, a nostra volta, incongruamente, al tempo del bombardamento della Libia, durante le primavere arabe.

Trent’anni fa – agnizione dolorosa – molto era già in nuce. Negri apre il suo racconto con pagine splendide e dolenti dedicate ad Algeri ai primi del ’90. Quando il jahidismo mostrava già il suo volto più crudele. Quando la compromissione dei servizi francesi, in quella crisi, a più livelli, con la violenza nel paese era qualcosa di cui solo si sussurrava. Quando centinaia di migliaia di morti alle porte dell’Europa – l’Algeria dei ’90 fu una mattanza tra le più crudeli di ogni tempo – avrebbero dovuto farci riflettere sull’idea che no, la storia non si stava per concludere, che nessun paradiso artificiale era in avvicinamento.

Le memorie dell’autore – tra l’altro fine lettore di meravigliosi classici post coloniali come Nedjima di Yacine Kateb di cui si sente l’eco in alcune pagine, qui – continuano poi ad aprire a un mondo in cui dolore e pietà, meraviglie indicibili e visioni atroci interrogano il cuore e la ragione.

Scorcio a parte, poi, è il capitolo dedicato a Beirut. Forse lo scenario in cui, insieme a Tangeri, si tocca con mano una nuova urbanizzazione come fenomeno correlato alla globalizzazione. Nel corso dell’anno 2000, diverse statistiche stimavano che, nel 2020, 1,5 miliardi di persone, al mondo, sarebbero poi vissute, in estrema povertà, negli slums, in ogni parte del globo, abbandonando le campagne.

Sta capitando anche nel paese dei cedri, in una città instabile e bellissima e che sempre era stata, per gli inviati, casa intima, imponente mosaico di realtà differenti e che ora sta irrimediabilmente cambiando volto e perdendo l’anima– è una questione di economia più che di tensioni internazionali.

La Libia, invece, è sempre stata una palude. Non la riunì mai Gheddafi, oggi la situazione è peggiorata, è uno stato sciolto. La Turchia è la scena più imprevedibilmente dinamica dove ancora tutto – in ogni senso- può accadere.

Cosa può dare speranza, allora? Forse solo le traiettorie singolari e diagonali di figure simbolo a spasso nella storia, come quei campioni di sincretismo che furono i donmeh e in fondo anche i ma’min di Salonicco, che, istintivamente, ricordano, al lettore, l’incredibile vicenda di Mehmet Sokollu, giovane serbo strappato alla sua terra ma, poi, asceso alle fila dell’alta burocrazia dell’impero ottomano, fino a diventare gran visir al servizio di Solimano il Magnifico, come si racconta in quello splendido romanzo che è Hamam Balcania di Vladislav Bajac. Scrittore capace di attraversare i generi così come fa Negri in quest’opera. Con l’occhio attento agli uomini che sono sempre molto più importanti delle identità. Come recita un vecchio proverbio congolese: ciò che l’occhio ha visto il cuore non dimentica. È la lezione che ti porti a casa da questo libro.