Le radici dell’omicidio di Falcone e Borsellino

Ricerca eccentrica nell’insieme affollato della pubblicistica e della saggistica dedicate alla cronaca giudiziaria italiana dei primi anni ’90 del ‘900, La guerra dei trent’anni di Filippo Facci (Marsilio, 750 pp., 25 euro) è un libro che spicca.

Il sottotitolo (1992 – 2022. Le inchieste, la rivoluzione mancata e il passato che non passa) apre a una realtà di fatto: la stagnazione perenne del Paese dai tempi di Mani Pulite – e torna, in queste pagine, tutto il racconto (infinito, iper-esteso, snervante) del viaggio percorso da fermi: la classe politica di dinosauri al tramonto, l’illegalità diffusa, i cambiamenti della geopolitica, i tangentomani inseguiti da folle vituperanti, e giornalisti (pure) riuniti in pool e naturalmente Antonio Di Pietro, moloch dell’autore, all’epoca abusivo all’Avanti del Partito Socialista (uno stigma), quindi Berlusconi, il marketing politico, le bombe, i processi in tv, fino ai nostri giorni, al triste viatico di una stagione dannata, “uno vale uno”. La scena mentale di un’intera generazione.

La guerra dei trent’anni di Filippo Facci (Marsilio)

Fanno la differenza, nell’analisi dell’ampio materiale di ricerca, le tappe proposte per la ricostruzione del periodo. La prima parte del testo è dedicata a rappresentare il clima che si respirava in una Milano-da-bere-già-al-tramonto (chi c’era non può che aderire: era così, come si racconta, quel clima da dissoluzione di un impero).

Poi la svolta: conseguenza, continuazione, non inizio di alcunché, è considerata qui la data del 17 febbraio 1992, quando, secondo la più comune cronaca dei fatti, dall’arresto quasi estemporaneo di Mario Chiesa, all’epoca presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano, prendeva avvio la più clamorosa inchiesta anticorruzione di sempre nel nostro paese.

Invece la data simbolo, quella della rottura di un equilibrio complesso che reggeva, di fatto, la Prima Repubblica, è per Facci un’altra: 30 gennaio 1992, il giorno della sentenza definitiva della Cassazione al maxi processo di Palermo. Scostamento temporale minimo, eppure le conseguenze (non simboliche) sono molteplici. Infatti:

È alla radicalità assoluta di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, non ad altro, al riconoscimento del loro lavoro e poi, soprattutto, alla scelta investigativa -follow the money –  lucida e ancora tutta da perseguire al momento della loro morte che l’autore imputa lo smottamento dell’ordine, l’incrinarsi di quell’inerzia segnata da mille silenzi, da infiniti non detti, su cui si reggeva  l’Italia, più che mai dopo la caduta del muro di Berlino“.

Non ad altro, dicevamo.  E comunque non a Mani Pulite, al cui riguardo Facci ha idee severe. Non da oggi egli è critico, pur con diversi distinguo tra le figure del pool, verso l’utilizzo eccessivo della carcerazione preventiva, verso stravolgimenti del codice che all’epoca sembravano essere anche il risultato di un accanimento della piazza. Va chiarito: le inchieste sul finanziamento illecito dei partiti avevano una loro ragion d’essere. Teoricamente anche Bettino Craxi non sosteneva niente di diverso nel suo celebre discorso del 3 luglio 1992:

I partiti, specie quelli che contano su apparati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali e associative, e con essi molte e varie strutture politiche operative, hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale”.

Il punto critico è il contesto, tuttavia, il drammone globale successivo e fuori fuoco.

Facci allarga enormemente lo scenario. E questa sembra essere la chiave importante del suo lavoro.  Discutendo di quegli anni, a tratti quasi come in un saggio di sociologia, egli mette sotto la lente tutta l’italica tendenza a rimuovere.

Il giornalista Filippo Facci

È come se ci fosse uno strano virus dell’inconsapevolezza a girare, in Italia, nei primi anni Novanta, sembra di capire. Una qualche dinamica girardiana dominava  la popolazione.  Qualcosa che riguardava tutti e non certo solo i magistrati. Tutti fingevano di non capire che dalla creazione di un debito pubblico enorme aveva tratto giovamento il Paese per generazioni – con tutti si intende anche chi, all’epoca, era all’opposizione e, a più riprese, aveva rifiutato una soluzione politica di Mani Pulite, tante volte per calcolo elettorale. A posteriori, pure:

L’Italia era più ricca, a quel tempo, per uno spiegabilissimo paradosso, viveva molto meglio grazie alla larghezza, nella spesa (e pure negli sprechi), di quei governanti che, anche cittadini insospettabili, si ritrovavano a voler mettere sulla graticola – dopo averli votati per anni-  per un reato sentito come odioso nel tempo dell’inizio del declino e di smottamenti ben peggiori. Una commedia infame. La firma sul Trattato di Maastricht, contestuale ai conti pubblici fuori controllo, con la conseguente direzione dell’austerity da imboccare, avrebbe cambiato pure il segno“.

La mediatizzazione di Mani Pulite, la luna di miele con il pool ai tempi del governo Amato (quello del prelievo forzoso dai conti correnti, per dare un’idea della situazione) è stato un alibi italianissimo. Si è preferito il capro espiatorio, si è scelto di appaltare ai processi, alle verità giudiziarie una rivoluzione che avrebbe dovuto scuotere il tessuto profondo del Paese e non certo solo i politici corrotti – forse è stata davvero questa la rivoluzione mancata.

Uno scenario peggiore, intanto, si è poi realizzato. Volendo credere alla versione di una classe politica predatoria e madre-di-tutti-i-mali-del-paese si è creato un rimosso con cui fare i conti alla vigilia della nascita della Seconda Repubblica.

Due magistrati di punta, nel nostro Paese, due icone antimafia poi al centro di retoriche infinite, di fatto sono stati uccisi crudelmente e i motivi veri restano ancora oscuri.

Falcone e Borsellino avevano capito che Stato, mafia e impresa restavano in affari all’epoca, ricostruisce Facci – e lo fa da cronista, con l’archivio, con la lettura delle carte, fino a dove è possibile arrivare. Interi pezzi di aziende di stato erano coinvolte.

Qualcosa di molto più strutturale e sostanziale, qualcosa di più grave rispetto alle tangenti, rispetto al finanziamento illecito. Era fuori scala, non introiettabile nell’immaginario la portata delle loro inchieste.  Il loro omicidio nasce probabilmente da qui, dal desiderio di indagare a fondo in quella direzione, più che dalla caduta di coperture politiche mai del tutto provate, da sedicenti sgarri di politici certo vicini a Cosa Nostra, da quarti livelli, da accelerazioni internazionali.

Ma è una realtà importante su cui non c’è ancora una memoria consolidata – in molti sembrano anche avere dimenticato, del resto, che cos’era la violentissima Sicilia degli anni ’80, prima del maxi processo. E’ qualcosa che, per dimensioni, è difficile anche solo da immaginare dopo gli infiniti depistaggi, dopo le verità mancate.

Non a caso un altro dei capisaldi del libro di Facci è la lettura, mai scontata, dei misteriosi suicidi del ’93. Quelli di Sergio Castellari, di Gabriele Cagliari e infine di Raul Gardini. Un romanzo nel romanzo, complesso, nero, è la vicenda Enimont, raccontata nel dettaglio, dagli esordi, dalla scalata fino al processo, fino al trattamento, inusuale per l’epoca,  per il banchiere Pacini Battaglia, fino all’esplorazione mai avvenuta di dinamiche probabilmente eccezionali e clamorose che avrebbero aperto scenari a dir poco inquietanti.

Cosa resta ancora?

Tantissimo costume, tantissima cronaca, la quasi arbasiniana critica dei vizi della maggioranza. Facci è anche scrittore. È anche capace di raccontarsi come un personaggio travolto dall’onda montante di quegli anni. Sembra un mucracker d’inizio ‘900 negli Stati Uniti, un rivoltatore di fango capace di denunciare i lati peggiori di una società viziata, sempre autoassolutoria, sempre autogiustificatrice. Dice i vizi dei censori, il rovescio della medaglia, la giustizia che scappa dal campo dei vincitori.  Con tutte le contraddizioni.

Poi c’è l’elenco di quelli che sono caduti, ed è una cosa bella e che fa onore.  Di La guerra dei trent’anni si porta a casa anche l’attitudine a non voler dimenticare i perdenti. Quelle figure di secondo piano che, dopo l’attenzione della cronaca, sono state rimosse. Quelli che non ce l’hanno fatta. Quelli come Sergio Moroni, per fare un nome tra i tanti, cui è dedicato in queste pagine non un panegirico ma un ricordo vero e complicato. L’elenco sarebbe lungo e certo indica  una scelta di campo, certo.

La pietà, comunque, non dovrebbe mai essere accessoria.