Le sentenze di Fran Lebowitz

Se si tratta di prendere posizione, provare disgusto e riderci sopra, non ci sono problemi per Fran Lebowitz. Perché esprimere un giudizio, dall’uso dei colori primari alla lonza di maiale con prugne, dalla cattiva musica – praticamente tutta quella che non superi il limite del fastidio personale e dell’inutilità – all’avere animali domestici, è materia di sua esclusiva competenza. Umorista con la grazia di una discesa libera di Isolde Kostner, attrice con disinvoltura e senza vanità, scrittrice suo malgrado, restia a combattere la sua stessa pigrizia e timore. «Scrivo così lentamente che potrei farlo usando il mio stesso sangue e non mi causerei alcun danno» rivela in un’intervista al Paris Review nell’estate del 1993: il lavoro sulla frase richiede una riscrittura e una ricerca continua, «cambiandola per guardarla da un’angolatura diversa»; eppure non c’è momento migliore della conclusione di un’opera: «La parola che meglio descrive come mi sento dopo aver scritto qualcosa è trionfante. Trionfante ai livelli di Alessandro Magno. L’aver superato le proprie paure, le proprie più grandi debolezze: questa è la definizione di eroico. Quando faccio altro, ovvero per la maggior parte del tempo, anche se non sto rapinando una banca o cose del genere mi sento comunque in colpa. Perché quello che dovrei fare è scrivere». Sono passati esattamente quarant’anni dall’inizio del blocco da scrittore di Fran Lebowitz e se non fosse stato per il documentario in sette puntate sulla sua vita a New York, tra retroscena e incontri, arte e mode, disponibile su Netflix, Pretend It’s a City (2021) di Martin Scorsese – coprotagonista della serie è la risata quasi ininterrotta del regista per ogni battuta della scrittrice – probabilmente in Italia non sarebbe mai stata tradotta, pericolo che Bompiani ha deciso di sventare con la pubblicazione della raccolta di scritti, interviste e racconti umoristici La vita è qualcosa da fare quando non si riesce a dormire (pp. 304, 19 euro, traduzione di Giulio D’Antona).

Fran Lebowitz è una katana giapponese: precisa nell’assestare il colpo e mirare all’obiettivo, una lama affilata che uccide senza farti provare dolore. Al contrario della maggior parte dei comici e intellettuali di questi tempi, che praticano cautela e gentilezza prima di esporsi ai rischi del proprio pensiero, ogni sua battuta si esaurisce a ritmo di Charles Mingus, come pretende il traffico delle strade di New York, possibilmente con un ghigno di soddisfazione sulla faccia: per la scrittrice non c’è tempo per trovare la parola cortese, il modo migliore per non far offendere nessuno. Ogni incipit è il dispositivo di una sentenza – non è un caso che Martin Scorsese in The Wolf of Wall Street le abbia affidato il ruolo del giudice che condanna Leonardo DiCaprio – a cui segue sempre una lista di consigli, quiz psicologici, decaloghi di esempi e rimedi, che non ha niente da invidiare a una motivazione emessa dalla Cassazione.

«La scienza non è una cosa bella. È mal proporzionata, agghindata in modo bizzarro, e spesso fin troppo zelante. Qual è, dunque, la sua attrattiva? Come se ne spiega la popolarità? E a chi ne dobbiamo la nascita? Per comprendere meglio la passione moderna per la scienza bisogna porsi in ottica storica. Così facendo scopriamo che più indietro si va nel tempo meno scienza si trova. Quella in cui ci si imbatte, però, è di qualità decisamente superiore. Per esempio, studiando la scienza del passato si incontrano fenomeni interessanti quali la gravità, l’elettricità e la sfericità della Terra, mentre un esame di quella più recente mostra un trend evidente verso il formaggio spray, il denim elasticizzato e i sintetizzatori moog. Simili dati sostengono in modo inequivocabile la mia teoria: la scienza moderna è stata in larga parte concepita come risposta al problema dei domestici e in generale è praticata da persone prive di ogni talento per la conversazione».

Non c’è possibilità di dribblare la suscettibilità del prossimo, scartare di lato con espressioni o giudizi prudenti, volontà di sciogliersi in virtuosismi linguistici per stemperare il disgusto. La comicità non concede pause e perdita del ritmo, così i teoremi di Fran Lebowitz sembrano le frecce scoccate da Eugen Herrigel: occorre eliminare tutto ciò che è superfluo per fare centro. Abilità acquisita senza nessun ricorso allo zen e al tiro con l’arco, ma con la diretta osservazione della capitale del mondo occidentale, New York, dagli anni settanta in poi. È dallo studio dell’umanità più varia, che vive nelle lavanderie a gettoni o negli attici più lussuosi, che la scrittrice affina il suo giudizio critico – prima come tassista e poi come giornalista per l’Interview di Andy Warhol – costruendo tesi e opinioni su qualsiasi argomento, orchestrando un pensiero filosofico fitto e reticolare come le strade di Manhattan. Sarà anche per questo che in alcuni articoli di costume sa presagire le dinamiche della società naufragata nell’era del web: dai vestiti con immagini e scritte che ricordano le bacheche Facebook o account Twitter – «Insomma, siate realistici. Se la gente non vuole ascoltare cosa avete da dire voi, cosa vi fa pensare che lo vogliano sentire dalla vostra felpa?» – ai martiri della società contemporanea, figure iconiche degne di devozione e obbedienza come gli influenzer, «SAN GARRETT LO STIZZOSO (morto nel 1974): patrono dei make-up artists, invocato contro il gonfiore e l’incarnato non uniforme».

Largo spazio – per non dire tema centripeto – di La vita è qualcosa da fare quando non si riesce a dormire è dedicato alla letteratura e allo scrivere, una scelta di vita, secondo Fran Lebowitz, meno saggia del tentare una carriera come «vittima di rapimento». Una condanna, un ergastolo, che non lascia tregua, dal parto con travaglio di 27 ore per essersi ridotti all’ultimo momento alle prime parole dell’autore/bambino: «la settimana prossima». Una descrizione tanto umoristica quanto spietata da poter diventare la versione ironica della prefazione per Musica per camaleonti di Truman Capote: se per l’autore essersi legato alla letteratura è un dono concesso da Dio ma che «ti consegna anche una frusta; e questa frusta è intesa unicamente per l’autoflagellazione», la Lebowitz sostiene che «in una terra di ciechi, lo scrittore è orbo da un occhio e non troppo felice della propria condizione». Del resto con Truman Capote non ha poche cose in comune: un’infanzia lontana dai circoli culturali ma dedicata completamente ai libri – «Quando ero molto piccola, diciamo a cinque o sei anni, mi resi conto che erano le persone a scrivere i libri. Prima pensavo fosse Dio. Così decisi di voler fare la scrittrice, perché, suppongo, mi sembrò la cosa più vicina all’essere Dio» – l’assalto a New York con la frequentazione e conoscenza di ogni singolo party e il precoce addio alle scene letterarie. Ma se Truman Capote è sopraffatto dalla stesura di A sangue freddo, la Lebowitz sostiene: «Una volta amavo scrivere. Da bambina non facevo altro. Mi è piaciuto fino all’istante in cui ho ricevuto il mio primo incarico professionale. A quanto pare non odio scrivere. Odio semplicemente lavorare. Odio lavorare, punto». E in alcuni giorni, come non essere d’accordo con lei.