L’impegno e la memoria selettiva

In settimana, parlando con Antonello Piroso, su La Verità, lo scrittore Walter Siti si è lamentato del troppo impegno di Roberto Saviano – sottovalutando l’importanza ormai acclarata di Gomorra –, di Gianrico Carofiglio e Michela Murgia, assolvendo solo quest’ultima, e non capendo che il primo è uno scrittore con molti limiti, il secondo uno che all’inizio provava a portarci dentro i processi, la terza è la versione cartacea di Massimo Giletti.

Poi nel giro di pochi giorni l’Italia si è ritrovata in un dibattito che ciclicamente la investe: gli anni Settanta e la stagione del terrorismo, da alternarsi con i misteri di Mussolini e la revisione della Resistenza,  intermezzo di stragi di Stato o coperture di stragi, mafie varie quando non associate ai grandi temi precedenti, aggiungere in due piatti differenti nostalgia e cinismo, e la rivoluzione – non riuscita – diventa un pranzo di gala, ciao Mao guarda come mi diverto a commentare sui social, a rifare processi e infliggere condanne.

Potremmo dire che dopo gli scontri, i morti, gli agguati, i rapimenti, le retate, le indagini, gli arresti, le sentenze, sono mancate diverse verità e con loro un Gattopardo sugli Anni di Piombo. Non abbiamo elaborato quegli anni, quei morti, quelle trame, li abbiamo selezionati ma non siamo riusciti a raccontarli ancora. Non abbiamo una pacificazione, e tra mille racconti non abbiamo una diga dove tutto si arresta, e forse questo è uno dei motivi del ritorno al dibattito – culturale – perpetuo, unito a quello sulla giustizia e il diritto. In realtà: i libri confessione, i libri biografici, i saggi e anche alcuni romanzi non mancano, come non mancano grandi sforzi (Arpaia, Balestrini, Bellocchio, Giordana) e sono anche seguiti moltissimi film, spettacoli teatrali, canzoni, documentari. Questo aiuta, ma non basta; perché la Resistenza ha avuto i suoi Gattopardi – dal Partigiano Johnny ai Piccoli maestri, passando per Il sentiero dei nidi di ragno, fino anche all’altra parte con Tiro al piccione di Rimanelli, solo per citarne alcuni – arrivando a un punto condiviso, l’amnistia togliattiana, che ha permesso nell’ingovernabilità delle idee e dei sentimenti contrastanti una tregua, anche se non si è arrivati a una memoria condivisa. C’è una memoria di maggioranza, c’è una costituzione antifascista che ha permesso con generosità a quella di minoranza di alimentarsi, e questa solo in piccole frange ha cercando di riannodarsi al paese. Di fatto l’Italia rimane un paese di parti.

È curioso, perché la sinistra condona la destra, e poi per una immobilità del paese diventa la parte eversiva e non viene mai condonata da se stessa e dalla destra. Per una impossibilità di arrivare alle verità e per una immaturità culturale, tanto che non avendo una opera condivisa e prima una accettazione di sentenze e condanne, indagini e risposte, non può nemmeno avere una memoria condivisa, rendendo inutili gli sforzi dell’arte.

Ma poi l’arte deve unire o far capire? E le due cose possono stare insieme?

L’arte, non ce la fa, per troppo impegno e quindi esasperazione delle parti o per poco impegno e quindi non esasperando abbastanza quelle parti?

E cosa è impegno? Firmare l’appello di condanna a morte del commissario Calabresi – di fatto il più grande fosso della cultura italiana – e poi tutti gli altri a seguire o non firmarne nessuno?

Se ora alla parola Neorealismo parte il che palle dell’intellettuale che ha capito tutto, mentre Martin Scorsese ancora ringrazia quella stagione, chi è che ha un problema?

E invocare un Neorealismo che non risolva il racconto degli anni Settanta, come il Neorealismo non ha risolto quello del dopoguerra: è utopia o romanticismo?

Oppure non sarà che vivendo un periodo di poca trama italiana, con una politica sciatta e scarsa, e in assenza di una classe dirigente capace di confrontarsi col futuro, il paese e la sua cultura – eterni infanti – giocano col passato, quando c’erano le trame. Scurati ora sta facendo i conti con Mussolini – uomo-stato e colpa-idee – e i giallisti italiani ci raccontano una polizia che mangia bene, non picchia nessuno, risolve i casi, allieta città e serate televisive e poi finisce anche al cinema mentre la realtà ci consegna un eterno Risiko: dove si alza un ufficiale, un amico, un prete o un testimone al quale torna la memoria e si ricomincia tutto daccapo con le parti, gli altri ufficiali, gli altri amici, gli altri preti e il partito dei testimoni che rimettono in moto il dibattito, in una fluidità che farebbe impallidire Zygmunt  Bauman e tiene in piedi sentenze non rispettate, pene che arrivano quando non serve più, con uomini e donne consumati, vittime e carnefici più stanchi dei morti che si portano dietro come in un vecchio western.

Il grande flipper della storia italiana.

Se basta la storia di Maurizio Di Marzio – brigatista scampato alla recente retata-rimpatrio, che se riesce a latitare per altri dieci giorni sarà libero per sempre, grazie al sopraggiungere della prescrizione – a bersi tutte le trame gialle nere e rosa di questi anni, allora si capisce perché oltre i motivi politici, e soprattutto di potere, quella stagione non si chiude, non manca solo la tanto invocata pacificazione alla Mandela, manca anche la volontà e mancherebbero le storie. È un paradosso che ne genera altri, e si torna all’impegno: non è forse Gomorra – con tutti i suoi limiti – l’unica epica letteraria da contrapporre? E comunque sorpassata?

E se tra raccontare Beppe Grillo e le colpe di suo figlio, uno scrittore scegliesse i dieci giorni di latitanza prima della libertà di Di Marzio: sarebbe un disimpegno rispetto all’oggi o una scelta saggia di letteratura? Sarebbe troppo impegno o fuga?

Il fatto che i giudici si siano messi a scrivere, imperando, e gli scrittori si siano messi a fare i giudici scrivendo, ha chiuso buona parte delle libertà della narrativa, perché è entrata la morale, una morale che non permette di allargare le pagine, ma che le restringe. Sprecando le trame del passato per dare sentenze e non per cercare di capire, trovandosi nell’ennesimo paradosso di avere nella ricerca della verità delle sentenze il migliore giornalismo metanarrativo, e nelle pagine del giornalismo solo riassunti, con una letteratura che è divenuta ornamento rispetto a quelle sentenze.

Finendo per avere, come in ogni ambito italiano, i buoni e i cattivi, i parenti delle vittime e i parenti degli assassini, in una contrapposizione che si fa sterile, una eterna partita a ping pong tra parti, dove la rete è il diritto: lento, strumentalizzato, dilatato nel tempo. E non si capisce niente, perché intanto il tempo è un fiume che corre, un racconto che si disperde, e ora i racconti li decidono gli algoritmi.

Manca Stendhal – non se ne avrà a male Scurati –, manca Tolstoj, e manca persino Carrère, mancano Manzoni e Sciascia, e con loro manca la memoria, pure se siamo sempre qua a parlarne. Mancano le verità, ma ci sono un mucchio di sentenze che ne dicono una parte e lasciano all’immaginazione il resto, come se i tribunali fossero le vere grandi case editrici e di produzione di questo paese. E se manca l’opera che ferma il tempo, quel tempo è perduto.

È una questione enorme che dai tribunali va alla politica e arriva alla scrittura, all’arte, perché l’arte, il narrare – in particolare – è l’unica contrapposizione alla morte.

L’altra sera, a margine di una trasmissione sulla mafia, Enrico Mentana parlando della vicenda Calabresi e poi estendendo il suo ricordo ad altri caduti dello stato: si è commosso, ha balbettato, a lui che non succede mai, ammettendo l’impossibilità di far capire quegli anni, lo sperpero che ne è stato fatto.

Qualche settimana è uscito Il tempo di vivere con te, dello scrittore Giuseppe Culicchia, che racconta l’altro punto di vista, quello dei brigatisti caduti, ricostruendo la vita di Walter Alasia (suo cugino) e finendo per lamentare – con molta delicatezza – la dimenticanza degli altri caduti.

Una memoria selettiva, alla quale manca l’opera che la allarga e ricongiunge.

Abbiamo il concetto degli inediti del ministro Dario Franceschini – con la (presunta) Fondazione e la vocazione all’accumulo – applicato agli editi che ci raccontano il loro punto di vista senza mai riuscire a storicizzarlo.

L’Italia, dopo la grande stagione del cinema e della letteratura, riesce ad esaurire gli argomenti senza mai riuscire a focalizzarli: li elenca, li accumula, li logora, ma non li storicizza. E ora che pochezza politica e pochezza culturale pari sono, non ci restano che i social come le cicale di De André che chiudevano La domenica delle Salme.