L’ironia senza fine di Alan Bennet

A dover attraversare per forza la solitudine, meglio sfruttarla. Esattamente come Alan Bennett, scrittore attore ma soprattutto drammaturgo, che nella sua stra-ordinaria carriera ha sempre saputo ritagliare un ruolo principale per l’isolamento, trasformandolo in arte: nessun dolore può risultare intollerabile, da non poter far ridere, se presentato in un monologo dello sceneggiatore inglese.

Più di trent’anni sono trascorsi dalla sua serie di assoli recitativi, andata in onda per la BBC, Talking Heads, – raccolta pubblicata da Adelphi con il titolo Signore e signori – e che fossero Julie Walters, Maggie Smith, o Patricia Routledge a prestare la voce, nessuno ha mai dimenticato l’auto-indagine, come percorso di scoperta e consapevolezza di sé, che ha realizzato Alan Bennett.

Non che non sappia domare la coralità della commedia – i suoi Nudi e crudi e Gli studenti di storia ne sono certamente una testimonianza – ma è nei monologhi, nei lunghi soliloqui trascorsi a mettere insieme i pezzi della propria storia e delle proprie emozioni, che Bennett accarezza con empatia e solidarietà, che non ha eguali, le solitudini di tutti.

Senza gli altri, nella nostra mente da rifugio eremitico, riusciamo sul serio a capire noi stessi, sembra suggerirci. Esattamente come nel passaggio della sua breve autobiografia Scritto sul corpo: “È un giorno del 1950, e sto passando davanti alla First Church of Christian Science in fondo a Headingley Lane, quando arrivo alla conclusione che, tutto sommato, sono omosessuale.”

Per questo, nonostante lo schema sia ormai conosciuto e nota la sua predilezione per i personaggi femminili, l’uscita della ultima raccolta con due monologhi, Una donna qualunque (sempre Adelphi, nei secoli fedelissima, con la traduzione di Mariagrazia Gini), non può non essere un appuntamento atteso per i suoi ammiratori e generare stupore ad ogni pagina.

Perché si fa pace presto, leggendo, che un autore con gli anni possa diventare complice di professionismo e cedere a un automatismo personale, più raro è conservare quell’umanità che si è trovata commovente fin dalla prima opera.

Sono due donne qualunque, o meglio, hanno l’ambizione di volerlo essere, le protagoniste delle rispettive narrazioni: preferirebbero essere perse in esistenze normali, schiacciate dai pesi che sopportano tutti, eppure l’eccezionalità che si insinua nelle loro vite disattende le loro pretese perché nasce dal sentimento unico che è l’amore.

Come accade a Gwen Fedder, madre di mezza età, trasformata in una contemporanea Fedra per la sua ossessione per Michael, il primogenito. Lei che non si sente all’altezza di questa passione perché “è una cosa altolocata. Sembra Shakespeare.” e che “da brava signora della sua età non deve pensare a queste cose”, come le suggerisce il medico. Allo stesso modo anche Lorna, protagonista del secondo movimento, L’altarino, rifiuta di scoprire la vera identità del marito per custodirne un affetto che non appartiene neanche più al tempo presente.

Bennett, sapendo sfruttare i tempi comici e restituendo la claustrofobia degli interni famigliari, ci pone di fronte alla consapevolezza che solo un sentimento così forte, specialmente se ostacolato dalla morale pubblica e di quel che pensa la gente, può indicare la via per la conoscenza di se stessi. Solo l’amore, vissuto in segreto, impossibile, inaccettabile, concede la forza di affrontare la solitudine per restare esclusivamente con il peso delle proprie scelte, anche a costo di varcare la soglia dei manicomi e di ingurgitare pillole, o di restare ore a fissare l’ultimo panorama che ha attraversato gli occhi della persona amata.

Alan Bennet nel 2007

Una donna qualunque è la fedele continuazione di un percorso iniziato più di mezzo secolo fa da Alan Bennett: il coraggio di esplorare gli angoli più remoti della propria mente, corpo e azioni attraverso il percorso ineluttabile dei pensieri e anche dei più grandi turbamenti. Un breve spazio di solitudine e di confessioni ammesse sottovoce in un mondo che ama parlare sempre più forte e di quanto si senta invincibile.

Una linea sospesa di “elaborazione per andare laggiù, vegliare e scoprire delle cose”. Forse prima “O forse no.”