L’oblio della civiltà europea secondo Milan Kundera

Tornano le parole trascritte sui taccuini di Albert Camus leggendo Un Occidente prigioniero di Milan Kundera (Adelphi, 2022, traduzione di Giorgio Pinotti e premesse di Jacques Rupnik e Pierre Nora, pp.85), perché se lo scrittore del nuovo umanesimo riconosceva come patria solo la lingua francese, l’autore ceco non può non interrogarsi sulle intersezioni che passano tra identità e cultura, nazione e verità, libertà e dittatura.

Milan-Kundera

Tutti punti d’incrocio tessuti dalla lingua, di cui gli intellettuali sono – o dovrebbero essere –  i suoi custodi. Sfida maggiore se si tratta della Cecoslovacchia della Guerra Fredda, una piccola nazione che basa la sua esistenza quasi su una “non certezza”: a differenza dei grandi paesi dell’Europa occidentale, i cui “popoli sono in grado di riconoscere nella loro cultura, nel sistema politico e persino nelle frontiere il frutto di una creazione“, la storia recente tra l’occupazione nazista e l’ingerenza sovietica, non garantisce questo dato inoppugnabile.

Ma è proprio l’indomani della lettera aperta di Solženicyn sulla censura nell’Urss, nel 1967, – data del Discorso al Congresso degli autori cecoslovacchi, prima sezione del libro – che tutto sta per cambiare: è l’anno in cui Miloš Forman riceve la prima nomination all’Oscar per Gli amori di una bionda, Josef Koudelka decide di rinunciare alla carriera di ingegnere per dedicarsi completamente alla fotografia, mentre in teatro Václav Havel sta per occuparsi di Difficoltà di concentrazione e il lontano Tom Stoppard a Londra mette in scena Rosencrantz e Guildestern sono morti.

La cultura ceca ha ripreso fiato“, ma sta proprio agli artisti, in particolare agli scrittori, saper guadagnare un posto di indipendenza dal regime e dai suoi ideologi, i “vandali“. Tutti gli sforzi che sono stati intrapresi in passato per distaccarsi dalla cultura e lingua germanica, devono essere diretti verso la sopravvivenza della sovranità e l’unico modo per ottenerla è tramite l’emancipazione dalla censura sovietica, perché “qualsiasi forma di interferenza nella libertà di pensiero e di espressione – indipendentemente dal metodo e dalla qualifica di tale censura – è nel XX secolo uno scandalo, nonché un pesante fardello per la nostra letteratura in pieno fermento“. Il dado è tratto e la strada per la Primavera di Praga è stata tracciata.

Milan Kundera coniuga i dati geopolitici, linguistici e culturali: ciascuna analisi e frammento della società forma nel suo insieme la panoramica dell’imminente futuro, come un singolo tassello l’intero mosaico. In breve quello che dovrebbe essere il compito precipuo dell’intellettuale in ogni tempo e spazio: osservazione della realtà per poter vedere prima e meglio degli altri in che direzione si sta andando.

Tanto che rileggendo la sua descrizione del vandalismo è difficile non vedere il germe di quella che attualmente è la censura gentile della cancel culture: “Il vandalismo contemporaneo non si manifesta unicamente in forme condannabili agli occhi della legge. Se un comitato di cittadini oppure di burocrati incaricati di un’indagine stabilisce che una statua (un castello, una chiesa, un tiglio centenario) è inutile e decide di eliminarla, non fa che mettere in atto una diversa forma di vandalismo. Fra una distruzione legale e una illegale non c’è grande differenza, così come fra una distruzione e una proibizione“.

E come le sue considerazioni fotografano al dettaglio la realtà nazionale, allo stesso modo anticipano le sfide continentali del prossimo futuro. Chiusa la stagione della Primavera di Praga con una disfatta, trasferendosi a Parigi e perdendo la cittadinanza cecoslovacca, Kundera intuisce un cambiamento politico dal nuovo punto di osservazione francese.

Le difficoltà che fino a pochi anni prima condannavano le piccole nazioni dell’Europa centrale – “il massimo di diversità nel minimo spazio” – a soccombere o ad allinearsi ai vicini più forti, ora sono destinate ad abbattersi sull’intero continente, stretto dalla morsa sovietica e che ha smarrito la radice ebraica e centro-europea.

Un Occidente prigioniero (1983) – secondo saggio che dà il titolo alla raccolta –mostra con largo anticipo rispetto all’avvento della globalizzazione, qual è la condanna dell’identità europea: “La sua vera tragedia non è la Russia” ma la perdita della centralità culturale come opposizione al potere.

Se cade nell’oblio la civiltà tra Vienna e Praga, anche l’Europa occidentale smarrisce la sua natura custodita per secoli. Sta ancora una volta agli intellettuali, i veri fautori delle rivoluzioni, invertire la rotta. Con molte incertezze sul margine di successo, perché proprio come osserva Kundera: “A Parigi, persino negli ambienti colti, a cena si discute di trasmissioni televisive e non di riviste. La cultura, infatti, ha già ceduto il suo posto“.

Un Occidente prigioniero è l’opportunità offerta da Milan Kundera per poter attraversare le dimensioni spazio temporali europee in poche pagine. Una sintesi perfetta che dal particolare nazionale investe il panorama europeo. Una lettura che offre grandi margini di riflessioni soprattutto in questa primavera di guerra in Ucraina. Quale ruolo stanno ricoprendo gli intellettuali? Questa Europa vuole davvero ritrovare se stessa o lasciarsi sopraffare?