L’ossessione di King per i dettagli

2018. A Roma nevica. Luca Briasco riceve una telefonata da Anna Pastore, “che allora era la editor di Sperling&Kupfer che si occupava dei libri di Stephen King. Mi dice: ‘In questo momento il traduttore di King – all’epoca era Giovanni Arduino – ha un problema, non riesce a occuparsi del nuovo romanzo. Ti andrebbe di farlo? Ammetto che, all’inizio, ho pure pensato che fosse una scherzo”.

Due anni prima, Briasco, che era già un noto traduttore, aveva pubblicato Americana, un viaggio nella letteratura statunitense, in cui parlava anche di It, “e dicevo che era arrivato il momento di riconoscere King come un grande scrittore statunitense, travalicando le coordinate di genere. Forse, l’idea di chiedere a me di occuparmi delle traduzione nasce anche da lì”.

Quando aveva iniziato a leggerlo?

Da ragazzino, a quindici anni. E, da allora, mi ha accompagnato per tutta la mia vita di appassionato di cultura americana.

Sognava un giorno di diventare il suo traduttore italiano?

Diciamo che se c’erano due autori che avrei voluto tradurre uno era Philip Roth e l’altro King. Sono riuscito a farli entrambi.

Non sono proprio simili come scrittori.

Assolutamente no. Sono lontanissimi, due poli estremi che, però, hanno una cosa in comune. Tutti e due, ognuno alla sua maniera, mantengono una qualità molto alta, ma restano entrambi leggibili. Romanzi come Pastorale americana, Lamento di Portnoy li può leggere chiunque. La scrittura di Roth è più alta, quella di King più popolare, ma quando li traduci ti accorgi che hanno tutti e due un livello di raffinatezza molto alta. E non sono replicabili.

In che modo si esprime in King questa raffinatezza?

Faccio un esempio: King è l’unico scrittore capace di presentare un personaggio in poche battute e poi farlo sparire per 200 pagine. Eppure, quando ricompare ti ricordi perfettamente chi è, che cosa ha detto, i dettagli fisici. Non è facile. Per riuscirci, devi creare una cifra specifica, anche linguistica, persino per i personaggi minori. Da questo punto di vista, Roth, messo a confronto con King, perde. Ma è anche uno dei motivi per cui tradurlo non è facile. Non si tratta di usare una lingua alta, ma di padroneggiarla perfettamente.

Quali altri aspetti lo rendono difficile da tradurre?

Il più grosso sta nella quantità enorme di richiami alla cultura popolare: show televisivi, per esempio. E sport come il baseball. Poi c’è la questione dei rimandi interni: non esiste libro di King in cui, anche solo per puro divertimento, non si faccia riferimento a un altro dei suoi romanzi. Bisogna conoscere bene tutta l’opera, in lingua originale, e anche le traduzioni in italiano, per rendere in modo fedele questi rimandi interni. Anche perché i lettori di King sono compulsivi, si accorgono di ogni dettaglio. Quindi, bisogna fare parecchia ricerca. Inoltre, come molti scrittori americani, è estremamente tecnico. Che parli di un mestiere o di un’arma scende in dettagli cui noi non siamo abituati. Non lo fanno neppure i giallisti.

King considera tutti i suoi libri come parte di un’opera unica e globale. Concorda?

A lui piace dirlo, ma non è proprio vero. Non c’è neppure un’unità di luogo: è vero che molti romanzi sono ambientati nel Maine, ma l’Overloook hotel di Shining sta in Colorado, e il primo libro di King che ho tradotto io, The outsider, è ambientato in Oklahoma. E anche dal punto di vista tematico, è vero solo in parte. LO stesso per quanto riguarda i richiami interni che, a volte, sono solo un gioco. Per esempio, in Billy Summers c’è un richiamo a Shining. Ma se non ci fosse non cambierebbe un granché. Però si può dire che la serie La Torre nera è un po’ il centro della sua opera, intorno alla quale ruotano molte delle altre cose che ha scritto.

Difficoltà particolari che ha affrontato nelle traduzioni?

In Billy Summer, che è la storia di un cecchino dell’esercito che diventa un sicario, sono impazzito nella parte in cui parla del fucile che usa per il suo ultimo incarico. Il montaggio viene descritto in tutti i dettagli, componente per componente. Ho dovuto trovare il fucile di cui parlava e confrontarmi con un armaiolo. Un altro problema che incontro in quasi tutti i suoi libri sono i riferimenti al baseball, sport verso cui provo una profonda idiosincrasia, non mi piace, non lo capisco. Ogni volta, mi devo ristudiare le regole, perché non riesco a fare a meno di dimenticarle: mi sono procurato un dizionario con la terminologia e c’è un sito dove vado a fare un ripasso. Il problema è che non basta conoscere le parole, devi capire come funziona lo sport, le fasi del gioco, altrimenti rischi di fare delle figuracce.

Ha mai avuto modo di contattarlo per sciogliere dubbi particolarmente importanti?

No. Non è raggiungibile. Considerato che viene tradotto in 35 lingue e visti i ritmi ai quali scrive mi rendo conto che per lui sarebbe impossibile avere a che fare con i suoi traduttori. Una delle prime cose che ti dicono è: “Qualunque problema, ti devi arrangiare da solo”. Ma non ho mai avuto grandi dubbi. Tranne uno, sul quale però, non avrebbe potuto aiutarmi più di tanto. E cioè, la questione di The outsider che è il titolo del romanzo ma anche il personaggio malvagio della storia. Ho tentato una quindicina di versioni… Outsider può essere “lo straniero”, “l’alieno” e così via. Ma un equivalente italiano non c’è. E, infatti, alla fine, non lo abbiamo tradotto.

È cambiata la scrittura di King nel tempo?

Sì. È diventata più asciutta. In It, per esempio, c’era molta più cura del dettaglio. Ma posso dire con certezza che la leggenda secondo cui avrebbe una serie di ghostwriter che scrivono per lui è falsa. Un traduttore se ne accorgerebbe.

E quando scrive a quattro mani?

La differenza si sente. A volte, ma è solo un mio sospetto, hai l’impressione è che a scrivere sia l’altro, il figlio Joe Hill, o Richard Chizmar, come nel caso della serie Gwendy, di cui ho appena finito di tradurre L’ultima versione di Gwendy, in uscita a febbraio, e che, poi, King, rifinisca il testo, dando il suo tocco.

Tra i suoi maestri, ci sono H. P. Lovecraftt e Richard Matheson. Riesce a percepire echi delle loro opere nell’uso della lingua?

Lo scrittore da cui è più influenzato e affascinato è sicuramente Matheson. E si percepisce, più nei racconti, che nei romanzi. L’ispirazione a Lovecraft riguarda le tematiche, l’immaginario e, aggiungo, per fortuna, perché, come scrittore, è piuttosto greve.

Sente il peso di quella che lei definiva la “compulsività” dei lettori di King?

Sono iscritto a un paio di community che frequento saltuariamente, ma non seguo i commenti sulle mie traduzioni. Anche perché dietro ci sono logiche che fanno riferimento a un polarizzazione interna. Da un lato, ci sono i fan che pensano che King sia un grande autore, punto. Dall’altro, quelli che pensano sia soprattutto un autore horror e del fantastico, e che rimpiangono un traduttore come Giovanni Arduino che, per formazione, appartiene a quel tipo di mondo.

Ci sono libri che, secondo lei, andrebbero ritradotti?

Alcuni ne avrebbero bisogno. La zona morta, per esempio. E andrebbero sistemati errori che in alcuni libri ci sono e che un altro traduttore, Tullio Dobner, ha ammesso. Ma è normale, a quei tempi Internet non c’era, ti dovevi arrangiare con i vocabolari.