Mai detto che a canzoni si fan rivoluzioni

L’immagine di Wojtyla strappata al grido «Fight your real enemy» con uno sguardo incarognito preso in prestito dall’inferno, dopo aver stravolto in coda War di Bob Marley attaccando i demoni del Vaticano. È il dissenso inscenato da Sinéad O’Connor al Saturday Night Live in una notte d’autunno del 1992. Un cambio di parole improvviso da lasciare secco anche il miglior Morgan a cui seguì uno smacco al Vaticano che scatenò il finimondo, prima che la questione in sé entrasse nei tribunali di diversi paesi, uscendo allo scoperto con tutto il suo tragico peso. Dodici anni prima, per qualcosa di meno plateale, per un simpatico «Wojtylaccio» detto con l’irriverenza di un Benigni ancora duro e puro, tre quarti del paese con annessa stampa mostrò il proprio sdegno alla stessa maniera ma con l’aggravante della censura indotta. «Sacrilegio», pensarono e scrissero più o meno tutti. Era il Festival di Sanremo condotto da Claudio Cecchetto e Olimpia Carlisi, quello che passò alla storia anche per un «Wojtyla profeta della rivalutazione dell’amore libero» esclamato prima di baciare la Carlisi in diretta per 45 secondi. Tre anni dopo Benigni fu addirittura condannato (e poi assolto in appello) per bestemmia e turpiloquio per uno spettacolo satirico sui 10 Comandamenti allestito alla festa nazionale dell’Unità di Reggio Emilia.

Il dissenso se l’è sempre vista brutta da queste parti, soprattutto quando voleva “solo” divertire. È necessario, tuttavia, discernere, provare a spogliare il dissenso come il giovane uomo nudo seduto in riva al mare di Flandrin; capire quando i portavoce siano degni di un compito delicato, fin troppe volte sottovalutato. Dissentire, dopotutto, non è cosa facile. C’è chi usa il dissenso per nascondere altro, riuscendo spesso anche a farla franca. Le tanto discusse pause di Celentano possono avere in tal senso un’accezione didattica: lunghissimi silenzi esplicativi di un vuoto di contenuti ben celato dietro il paravento del dissenso. Tutto qui, o quasi. Esistono poi altre mutazioni del dissenso: c’è quello che ha la tessera di partito, beve birra e mangia panini con la porchetta ascoltando Manu Chao; quello dai pettorali alti, i capelli corti e quattro riff ripetuti all’infinito prima di blaterare su croci celtiche e poeti di cui magari non si conosce manco una poesia. Insomma il dissenso sui palchi, alle feste e in Tv meriterebbe uno studio a parte; a volte si comporta come un pagliaccio che dimentica le battute e non sa improvvisare; altre volte è un innocente in prigione; un bonaccione impaurito; talvolta è un bluff, un ossimoro o una partita a scacchi giocata da solo. Nella storia recente del nostro paese, ci sono stati però momenti in cui il dissenso e la musica hanno inciso capolavori, senza mai cedere il passo alla sbornia mediatica. Una storia che comincia con gli avvoltoi calviniani dei Cantacronache e la Zolfara della Vanoni, incontra l’avvitamento di Guccini, «Però non ho mai detto che a canzoni si fan rivoluzioni, si possa far poesia» (da L’avvelenata), e saluta Rino Gaetano a Rieti che non vuole saperne di cantare in playback, si accende una sigaretta e fa finta di nulla.

Tornando ai giorni nostri, il dissenso esposto da un musicista è perlopiù standardizzato. Il caso Fedez, esploso a ridosso del concertone del 1 maggio in occasione della festa nazionale del lavoro, è emblematico. Il “rapper” accusa la Rai di censura. E lo fa scegliendo di navigare un fiume comodo per sfociare subito in mare aperto. Il risultato è quindi un servizio de le Iene a caso, dove tutto è registrato solo per infondere sdegno e stupore in chi guarda e ascolta, senza approfondire e premere i tasti giusti. Manca il quid del musicista impegnato. Non c’è pathos e del guizzo dell’artista nemmeno l’ombra. Lo dimostra anche la vacuità del risultato con i partiti che cavalcano immediatamente l’onda. Non solo: lo testimonia pure lo spirito in origine battagliero di questo pezzo, battuto sul nascere dall’evaporazione stessa dell’oggetto in esame. Cose che capitano nel 2021. Altrove invece il dissenso è sostanza. E il rap lo stile che fa la differenza. Accade negli spazi in cui la protesta è reale, come in Tunisia, dove il rapper Klay BBJ è stato addirittura prima arrestato e poi scarcerato per aver cantato contro governo e malaffare. In Polonia il dissenso in musica è addirittura vittima di una mentalità ferma al mesozoico, come nel caso della cantante Maria Peszek che nel 2016, afflitta dalle manifestazioni di sdegno per i suoi testi, decide di piazzare un piccolo saggio delle tante minacce ricevute nel corso della sua breve carriera: «Una lettera, una lettera, una lettera in una busta bianca. Qualcuno, qualcuno mi minaccia di morte. Puzzi di lesbica, merda sinistroide! Stupida cagna, puttanella ebrea! Oggi, oggi su internet mi sono arrivate queste minacce. Ti distruggo, ti faccio a pezzi e tiro l’acqua del cesso! Puzzi di lesbica, merda sinistroide! Hai qualcosa in testa, cagna, ti troverò di sicuro!». Il dissenso altrove è vivo; genera un effetto. Mentre in Italia finisce spesso per essere caciarone, vacuo, banale. Ma non tutto è perduto. Fino a quando ci saranno musicisti come Vale Lambo che in Aro Stat ‘E Cas canta il disagio reale vissuto da migliaia di giovanissimi, prendendo il posto di altrettanti cronisti, «Int a zona toj te va semp lisc’/Acal e vetr nir, aggir int a Vanquish/Ma vuje aro stat e cas?/E nuje aro stamm e cas?/Ma ce vist aro stamm e cas?», e rapper incendiari come Speranza che bevono Peroni nei presidi sinti cantando con Rocco Gitano uno stile di vita che pochi hanno il coraggio di raccontare, il dissenso potrà ancora sentirsi protetto da chi lo interpreta con sincerità e senza quelle menate all’italiana che, ahinoi, continuano a dominare un dibattito pubblico sempre più allo stremo.