Maria Falcone, una vita dedicata alla memoria

La morte di una persona cara cambia sempre la vita di chi rimane. Ma non tutti i cambiamenti sono uguali. In parte c’entra la causa della scomparsa: un conto è perdere un fratello per malattia, un altro se è la conseguenza di un incidente. E completamente diverso è il caso in cui la fine avvenga sotto 500 chili di tritolo.
Così a Maria Falcone, che fino al giorno prima del fratello Giovanni si era presa cura cucinandogli pasti e assistendolo nelle mansioni casalinghe dopo il divorzio da Rita (e prima delle nuove nozze con Francesca Morvillo, anche lei vittima dell’esplosione di Capaci), all’improvviso dopo quel 23 maggio 1992 la vita non è solo cambiata: si è ribaltata.

Maria ai tempi insegnava e si occupava del marito e del figlio Vincenzo, molto legato allo zio. Delle vicende professionali Giovanni Falcone in casa preferiva non parlare e anche se tutti percepivano il clima di preoccupazione, la mafia non era argomento di analisi e dibattiti familiari.

Dopo la strage, però, niente poteva più essere come prima. Piano piano, attraversando il lutto cui si aggiungerà quello per l’uccisione di Paolo Borsellino il 19 luglio, Maria arriva così alla consapevolezza di dover fare qualcosa. Diventa un’attivista che gira l’Italia per raccontare che cosa è la mafia. Agli adulti, ma soprattutto ai ragazzi.

Maria Falcone a. un corteo degli studenti nel 2019

Il libro Eredità di un giudice (Mondadori) che la Falcone firma con la giornalista Lara Sirignano, ha come sottotitolo: Trent’anni in nome di mio fratello Giovanni.

Ci sono i ricordi, certo, di quell’uomo di tre anni più giovane (lei oggi ha 86 anni) che “non era un eroe”, ma una persona schiva che amava il mare, da bambino giocava a calcio alla Kalsa e a scuola aveva pagelle zeppe di 10. Un ragazzo che aveva pensato di andare all’Accademia navale di Livorno, ma rinunciò perché il nonnismo dell’ambiente o gli “ordini assurdi” non facevano per lui, così che accettò di fare Giurisprudenza, dove lo aveva iscritto il padre.

Frammenti di memoria perché – come scrive José Saramago nella citazione con cui si apre il libro – “Noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo”.

Ma in Eredità di un giudice è la seconda parte della frase quella che assume maggior valore: la responsabilità. Forte di questa, Maria Falcone va a indagare su attacchi e linciaggi subìti dal fratello, sulle promozioni negate a lui ma concesse a chi con la mafia non aveva mai lavorato, sull’isolamento prima a Palermo e poi a Roma, quando nell’ultimo anno solo Claudio Martelli, allora ministro della Giustizia, rimane a fianco del magistrato.

Il murales a Palermo dedicato ai due magistrati uccisi dalla mafia

Con le agende ritrovate in casa di Giovanni Falcone, dense di “una scrittura minuta, precisa, ordinata”, lei ripercorre incontri, convegni, appuntamenti degli anni passati a combattere la mafia. Scrive: “Sfogliando quei taccuini che raccontano tutta la vita e l’amore che Giovanni aveva per il suo lavoro provo per la prima volta dal giorno in cui è morto la paura che il suo patrimonio professionale e morale possa essere dimenticato. E che tutto, davvero, possa essere stato inutile”.

È questo il momento della svolta. Se ognuno allora ha un proprio modo di reagire, se Agnese vedova di Borsellino per anni preferirà la dimensione privata del dolore, Maria invece – scopertasi “nota mio malgrado” – decide di parlare.

Con emozione e imbarazzo all’inizio, poi sempre più sicura. Pronta a rispondere alle domande dei ragazzi: ma lui aveva paura? ma lei può perdonare chi l’ha ucciso? ma la mafia non è una cosa bella?

Gliele pongono in tutta Italia e lei, memore della preoccupazione di Giovanni che di mafia troppo si tacesse (il solo merito della Piovra, secondo lui, consisteva nel fatto che avesse acceso i riflettori sul fenomeno), gira scuola dopo scuola, incontra migliaia di studenti e insegnanti, parla. Raccontare diventa la sua “ragione di vita e Maria dà vita alla Fondazione Falcone che organizza manifestazioni per la legalità in occasione degli anniversari di Capaci, progetta con il ministero le “Università per la legalità”, pubblica libri e tesi.

Ci sono anche tanti incontri nel libro: magistrati (un rapporto speciale Falcone lo ha con Giuseppe Ayala, con il quale scambia necrologi di humour nero), politici, poliziotti americani, persino un Buscetta irriconoscibile grazie alla chirurgia facciale.

L’importante – al di là delle ricostruzioni e dei ricordi – è non fermarsi. Perché “la rivoluzione non è compiuta, ma siamo in cammino e di una cosa sono certa: la vita e la morte di Giovanni non sono state inutili”.