Morselli, il disturbatore della quiete editoriale

Due vite, un solo corpo a dividerle. La prima: reale, spesa a scrivere e ad essere rifiutato. La seconda: trasposta, che aleggia fra consensi e trionfi. La normalità e il sogno. L’ufficiale e il saggista. L’agricoltore e lo scrittore. Guido Morselli è stato il muro che le spaccava in due, che lo separava dai suoi desideri, fino a quando non ha puntato una Browning alla tempia e ha fatto fuoco, notte fra il 31 luglio e il 1° agosto del 1973, «non ho rancori». Dopo, purtroppo, è stato tutto più facile. In precedenza ha saputo da solo per trent’anni di essere un grande scrittore, non avendo trovato nessun editore disposto a pubblicare i suoi libri. Che il suicidio sia venuto o meno dalle chiusure e dai rifiuti delle grandi case editrici italiane non ha importanza. In seguito l’hanno scoperto in molti, ma il dramma si è consumato prima, nell’attesa. 

Avere un mondo dentro e non poterlo raccontare. Avere un talento che gli altri non vedono e non poterlo esibire. Avere una grandissima capacità di creare storie che non riescono a prendere la forma di libri, sfiancherebbe chiunque. Mille idee e nessun trionfo. Una vita votata alla scrittura: sommersa, rifiutata, rimandata. Una vita tradotta e puntata nella scrittura. A leggere il suo diario sembra di imbattersi nell’Herzog di Saul Bellow. Per la voglia di instaurare dialoghi, con sé e con gli altri. Per  l’utopica convinzione di voler partecipare, starci, dire la sua attraverso i giornali. Scriveva a molti, Morselli, e mai inutilmente, polemizzava, proponeva, cercava disperatamente interlocutori, ne trovò pochi.

Nella sua storia c’è anche tanta sfortuna e l’umiliazione di aver fatto da involontario imputato, sempre condannato, di giudici distratti e accecati. Hanno dovuto aspettare parecchio, il suo mondo, le sue pagine, la sua anomala scrittura, prima di trovare il giusto lettore e poi la casa editrice Adelphi. Ma hanno avuto una custode: Maria Bruna Bassi, amica e consolatrice dello scrittore, che non ha mollato fin quando non ha raggiunto lo scopo. La colpa del ritardo, dell’ottusità, dello snobismo, è da ricercare nel suo stile a cavallo fra narrativa e saggistica, i suoi temi che oltrepassavano il presente, occupandosi sempre in modo spiazzante del passato o del futuro. Quasi che il vissuto non fosse il giusto tempo. Autore complesso, romanziere pieno, non scrisse mai un libro uguale ad un altro, ed ebbe il pregio, non compreso, di anticipare, di essere un precursore. Dal suo diario, vera e propria mappa, si apprende la colta costruzione del pensiero morselliano, attraverso gli anni.

Un ampio percorso non privo di sofferenza, pieno di spunti, riflessioni, citazioni, ma anche definizioni fulminanti come quelle su due argomenti molto cari: «La Svizzera, questa repubblica platonico-alberghiera»  e  «le persone, le donne, che amano sopra di ogni cosa viaggiare. Anime portatili». E poi brevi ritratti, appunti per romanzi mai venuti, una piena di parole, quasi un indice di quelle migliaia di pagine scritte, macinate, archiviate; e molte volte si ha l’impressione di un suo pensiero plurimo, alla Pessoa, spesso ragiona da multiplo, estendendosi ai protagonisti dei suoi romanzi; un dialogo col mondo, rotto dalle intermittenze della vita che si accavallano e uniscono con quelle immaginarie dei suoi personaggi. Nelle sue pagine ci sono slanci e visioni che confondono, intuizioni smarcanti, quasi si compatisce lo sconcertato lettore che non ha colto la grandiosità.  Certo il suo carattere – irruente, anche arrogante – non aiutava nel rapporto con gli altri, e poi la solitudine cercata e avuta, nel suo ritiro a Sasso di Gavirate in provincia di Varese, ha finito per ingoiarlo. Meticoloso, silenzioso, abitudinario, univa alla giornata dello scrittore quella dell’agricoltore. Si era creato un regime di benessere, inserito a pieno nel paesaggio e nel ciclo delle sue piante. «Non ho né aspirapolvere né frigorifero. Non ho nemmeno la tv! In cambio, ho un discreto cavallo da sella, col quale esploro la montagna che incombe subito dietro la mia casetta». 

Profondo conoscitore dell’animo umano, intellettuale europeo con una forte impronta illuministica, estensore di dialoghi perfetti, gran lettore: la stampa come musa, giornali e riviste, che poi ordinava con passione, collezionati e usati per comprendere a fondo i temi da trattare nei romanzi, basti pensare alle due chiese nei suoi anni: quella cristiana e quella comunista, scrutate, studiate e poi sezionate, sovvertite, adottate in “Roma senza Papa” e ne “Il comunista”. Adesso ci appaiono, entrambi, romanzi di spessore, complessi e riusciti, ma allora quel suo dominare e intrecciare saggio e narrazione sembrava non avere lettori, quel suo immaginare e giudicare appariva come un esperimento senza speranza. Nuotava inevitabilmente contro corrente. Morselli aveva raggiunto l’alto complicato grado di federazione della sua scrittura: rimestando, cercando di capire il dibattito sull’evoluzione del romanzo, non leggendo mai in modo superficiale le vicende dei suoi anni, anzi, ingoiando con foga: cronaca, scienza, filosofia e psicanalisi, interessandosi al mondo, si immergeva nelle questioni, e una volta capito dove e come azzannare, sperimentava, fino a trarne il meglio, fino ad immaginare l’impossibile, a capovolgere e riscrivere episodi come in “Contro-passato prossimo”, dove ipotizza una diversa conclusione della prima guerra mondiale, con la vittoria degli Austro-Tedeschi.

Ci ha provato a lungo e con combattività, peccato davvero che non abbia potuto godere del successo, dopo quel gran lavoro, sottotraccia. Eppure non traspare invidia né astio dai suoi scritti, anzi, sembra che ad ogni sconfitta lui rilanci, e in modo prodigioso aumenti la puntata, su romanzi, saggi, polemiche e analisi. Allora forse appariva come un pazzo provinciale che metteva il muso in affari non suoi, un disturbatore della quiete intellettuale, ma se si leggono anche solo le sue lettere, non si può che comprenderne la grandezza. Di sicuro, le mancate risposte, i rimandi superficiali scavavano un solco fra lui e il resto dell’umanità. «Ieri sera prima di dormire ho riveduto me stesso, quale poche ore avanti camminavo per strada, tornando a casa. Non avevo mai sentito così profonda pietà degli uomini come rivivendo l’immagine di quest’uomo che attraversava piazza Mercato». Questa sua condizione d’isolamento fa pensare al romanzo “Dissipatio H.G.” (Humani Generis), e allo stato di ultimo uomo in un mondo di assenti – ricordando il recente lockdown –, ma la sua narrativa è piena di suggerimenti, sembra una molla che si può allungare e piegare su quella che è stata la sua appartata esistenza. Studi classici, laurea in legge, famiglia agiata che gli permette dopo una parentesi militare di dedicarsi interamente alla lettura e alla scrittura, sul documento d’identità però, Morselli, alla voce professione farà scrivere: agricoltore. Eppure aveva pubblicato due saggi: uno nel 1943 da Garzanti: “Proust o del sentimento”, e l’altro: “Realismo e fantasia, ovvero dialoghi con Sereno” nel ’47, dall’editore Bocca. Pubblicherà anche degli articoli su “Il Mondo” di Mario Pannunzio, su “Il Tempo”, su “La Cultura” diretto da Guido Calogero, e su altri giornali minori, ma la meta era la letteratura: alta, trascinante, vera. Le sue mancate pubblicazioni sono la pagina più bassa dell’editoria italiana. La sua esistenza, invece, è un esempio. Ha regalato al futuro non solo libri indimenticabili, ma soprattutto il dubbio dell’errore ed è questa la grande beffa, chiunque, grande scrittore o no, rifiutato, potrà sperare appellandosi alla sua storia, potrà macerarsi nell’attesa, confidando nella ripetizione del caso, e invocando il suo nome: rilanciare.