Napoleone & Gainsbourg: ultimi conquistatori

Kingston, 1 Gennaio 1979. L’isola che fu dei Taino festeggia l’ultimo anno di un decennio ambiguo per i nipoti degli schiavi deportati dai britannici dall’Africa sub-sahariana. L’amato Michael Manley guida ancora il governo ma ha ormai il fiato corto. Il suo socialismo casa e chiesa alla fine della fiera si è rivelato un enorme disastro finanziario. Come previsto dagli analisti di Wall Street il sistema è inesorabilmente crollato per una serie di mancanze strutturali e programmatiche. La Giamaica boccheggia, vacilla, trema. Ma non demorde, anzi lotta con una ritrovata allegria, suonando blues, cantando reggae, sognando di tornare nella Gerusalemme indicata dal profeta Bob, Shashamane.

Sulla spiaggia di Hellshire, intanto, c’è un uomo che cattura l’attenzione dei passanti; è bianco da fare schifo, parla in inglese con un accento francese da bohémien d’altri tempi, e indossa pantaloni a mo’ di culottes, un foulard di seta viola e una camicia bianca. E cosa ancora più strana: fuma Gitanes una dietro l’altra. A Kingston lo conoscono bene più o meno tutti quanti: si chiama Serge, ha cinquant’anni e alcune mattine può dimostrarne anche settanta; è l’autore di Je T’Aime Moi Non Plus, il punto G inciso per sempre sullo spartito, la canzone scandalo che ha liberato i corpi degli occidentali. Con lui ci sono tre donne e tre ragazzi: le prime sembrano sopraffatte da un’ammirazione irreversibile, mentre i secondi ipnotizzati da riflessioni inedite per i tempi. I sette ridono, danzano e improvvisano La Marsigliese in una versione reggae ai limiti della blasfemia. Ma quell’uomo basso e malandato non è affatto un eretico, tantomeno uno sprovveduto. A Parigi è l’homme à tête de chou; per alcuni il figlio di immigrati ebrei ucraini scappati da Odessa e sbarcati a Marsiglia con l’acqua alla gola; per altri lo chansonnier surrealista, amico di Salvador Dalí e Marcel Aymè; per i più guasconi, invece, è colui che è stato investito dal brigidismo cadendo in piedi. In Giamaica, però, quello straniero ricco e famoso è semplicemente un uomo stanco, non è affatto il viveur decantato da mezzo mondo; barcolla tra i mozziconi come un nestinaro ubriaco e spesso intavola parole stravaganti. Kingston, dopotutto, è la sua Isola d’Elba. Non potrà mai essere la sua Alessandria.

Quell’uomo è approdato per riorganizzarsi, cambiare registro e mettere in piedi un’opera in cui l’anima dei Taino possa unirsi a quella dei Galli. Aux armes et cætera nasce infatti con l’ambizione del musical spregiudicato, avvincente, dunque napoleonico. Se però Bonaparte impiega nove mesi per metabolizzare il trattato di Fontainebleau e i fatti di Lipsia, a Gainsbourg ne bastano soltanto tre per riavvolgere il nastro e fare tesoro dei consigli del fidato Philippe Lerichomme. In studio con lui ci sono i sei di Hellshire: Robbie Shakespeare al basso, Sly Dunbar alla batteria, Uziah “Sticky” Thompson alle percussioni e i Threes ai cori, il trio guidato da Rita Marley, moglie di Bob. Gainsbourg è gasato; registra ogni santo giorno scacciando via i sensi di colpa accumulati in vent’anni di beghe, eccessi e rapporti sessuali a oltranza: li polverizza e ci costruisce sopra uno spazio inedito, un Teatro dei Vigilanti per chansonnier e femme fatale. Il dominio di matrice napoleonica assume nelle sue strofe un’accezione edonista. Non c’è affresco più illuminante di una donna, una sigaretta, un giradischi e tre dita di Moet et Chandon. Al Clyde Barrow della Senna non serve altro. È questa la sua Prussia. La cattedrale di Notre-Dame per lui è una vasca da bagno in cui immergersi senza mai mollare la cicca, come nel celebre scatto di Xavier Martin.

Il suo pensiero, in fondo, sconfina spesso e volentieri in un nichilismo piacione. Ama, oltretutto, essere scorbutico, saccente e insolente con i sessantottini che bivaccano nei salotti: li considera finti sanculotti da cui è meglio stare alla larga. Insomma alle Grandi Antille il musicista scomunicato dal Vaticano e dalla BBC è finalmente un uomo libero da censure e sciacalli in Jean-Paul Gaultier. C’è tuttavia un problema da risolvere: la critica popolare che lo ha sempre protetto a questo giro sembra abbandonarlo. Il titolo con richiamo corso del disco appare infatti fin da subito sia un vezzo erotico che uno smacco al campanilismo transalpino; purtroppo solo per alcuni un’interpretazione liberatoria dai crismi di uno stato irrimediabilmente grandeur. L’inno nazionale in salsa reggae viene addirittura visto come un affronto inconcepibile. E in patria c’è già chi propone di sottrargli la cittadinanza francese. Mentre i giornali gridano all’ennesimo scandalo e i compagni fanno finta di nulla, perché, a loro dire, quell’uomo vaneggia in una nube di fumo e ha perso il senso della realtà. Gainsbourg però guarda avanti; ai circoli letterari preferisce i bordelli. Ma quando alle parole seguono le minacce, più o meno seriose, di un gruppo di paracadutisti indignati, finisce per subire il colpo. Gli amici giamaicani giunti in Europa per suonare con lui in tournée sono addirittura costretti a nascondersi in un albergo a Bruxelles. Così a Strasburgo decide di deporre le armi cantando La Marsigliese tradizionale davanti ai nazionalisti, che da bravi lepeniani ringraziano mostrando il dito medio. Il tour è finito. Si torna a casa.

Jane Birkin nel frattempo comincia a pensare. Vede il suo uomo come un Napoleone a Sant’Elena. Non c’è più amore, tra i due, ma solo liti in discoteca e gesti estremi lungo la Senna. La sirena in topless consegnata all’eternità da Antonioni in Blow Up cade presto tra le braccia di Jacques Doillon, il regista impegnato de La drôlesse. Serge incassa il colpo con classe, continuando a scrivere canzoni per la sua ex Giuseppina come se nulla fosse accaduto. È pur sempre un gentiluomo. Ma alla lunga accusa. Gli mancano i bagliori accecanti come la Grande Armée a Jena di Histoire de Melody Nelson, le vibrazioni dei primi tempi in Gainsboug Percussions, gli insegnamenti sinceri di Babatunde Olatunji e le risate impertinenti di France Gall. Gli manca il passato migliore, la gloria, il calore della gente e quello delle donne più belle. L’uomo appare bruciato mentre il declino incalza. Gli anni ’80 alle porte saranno per Gainsbourg ciò che furono i cento giorni per Napoleone. Ma la sua è una Waterloo interiore, e il Duca di Wellington solo un corpicino assuefatto da alcool e tabacco. La sofisticazione diventa così il paravento di una mancanza evidente. Gainsbourg è ferito ma resiste e trova nuova ispirazione osservando un dipinto di Paul Klee appeso in casa: Mauvaises Nouvelles des Etoiles. Ecce Homo, nomen omen, e le altre dodici canzoni contenute nell’album formano una marcetta irriverente che lo chansonnier esegue con i ritrovati amici di Kingston. E, tra un gemito e l’altro, spunta anche un peto su base dub: Evguénie Sokolov. Una piroetta musicale che sarà anche un romanzo folle, «un omaggio alla pittura e all’escatologia nella Parigi degli anni Sessanta». Qualcosa per cui John Zorn dichiarerà: «Non ho mai letto niente di simile. Ti farà venire i brividi. Ti farà ridere. È anche probabile che ti disgusti. La visione di Gainsbourg è unica, autentica e convulsa. E non dimenticare di coprirti il ​​naso».

Gainsbourg sfugge sempre più al mondo che lo circonda, posseduto com’è da improvvisi deliri di onnipotenza. È impantanato nell’eccesso; non predica più sesso ma disincanto. Un bel giorno arriva anche a bruciare banconote da 500 franchi in diretta televisiva al grido «il socialismo è una puttana». È deluso dai Mitterand, quelli che undici anni dopo al suo funerale diranno «Era il nostro Baudelaire, il nostro Apollinaire», confermando a mani basse l’ipocrisia paventata da sempre. Punta dunque a una nuova conquista, ottimista come Bonaparte dopo la battaglia di Ligny. Ma esattamente come lui finisce per non fare conti con la bestia dietro l’angolo. L’ultima provocazione, prima di cedere il passo al declino, è travestirsi da donna sulla copertina di Love On The Beat, album in cui torna a mordere qualsiasi cosa come un invasato, suonando funky e new wave meglio dei giovani. È scatenato, il vecchio Serge. Cita Francis Bacon e l’Ammiraglio Nelson, canta l’omosessualità in Kiss Me Hardy, e per non farsi mancare nulla in Lemon Incest sciorina un incesto, ovviamente artistico, con la piccola Charlotte su un campione di Chopin. Sarà l’ultima fuga dalla realtà orribile prima di concedersi alla banalità dei tempi in You’re under Arrest nel 1987. Il dolore, la cecità e la malattia lo porteranno nei quattro anni successivi ad abbandonarsi totalmente. Il 1 marzo 1991 nell’appartamento in Rue De Verneu il tempo si fermerà per sempre come a Longwood House il 5 maggio 1821. L’ultimo grande conquistatore è morto. E con lui anche l’erotismo che diventa musica non sarà mai più lo stesso.