Next Generation Eu: uniti si vince

Ospitiamo una riflessione di Vittorio Emanuele Parsi – che insegna Relazioni Internazionali all’Università Cattolica di Milano – sull’Europa e la sua capacità di risposta alla crisi pandemica. Parsi è autore di “Vulnerabili” (Piemme)

 

Nel corso dell’ultimo anno l’Unione europea ha dovuto affrontare una sfida che avrebbe potuto travolgerla: la pandemia. Next generation Eu è stata la sua risposta, frutto di un processo politico laborioso ma tempestivo che ha ritematizzato la ragione ultima della necessità del progetto europeo: divisi perdiamo tutti (di sicuro e su tutto), uniti abbiamo tutti più chance di vittoria. Fuori dei facili trionfalismi, delle enfasi retoriche, ma anche oltre le risse da cortile e gli egoismi nazionali, è una verità che ben conosciamo, e la cui validità si estende ben oltre la lotta contro il virus. Intendiamoci molto bene. Il Next generation Eu non è certo la riedizione del Manifesto di Ventotene e sicuramente poteva prevedere meccanismi più generosi, flessibili, rapidi; come del resto neppure il Piano nazionale di ripresa e resilienza non è certo esente da critiche. Anche se occorre sottolineare che il primo innova rispetto ai principi in base ai quali è stato varato (solidarietà nelle garanzie e proporzionalità rispetto ai danni patiti) e agli accordi che sospende (il patto di stabilità) più di quanto il secondo rassicuri sui meccanismi di accountability democratica (chi governerà i fondi e a chi dovrà politicamente rispondere).

Per il futuro della Ue, altrettanto decisivo della sconfitta della pandemia sarà la capacità dell’Europa e delle sue istituzioni – Parlamento, Commissione, Consiglio dei capi di Stato e di governo – di applicare ad altri campi la ritrovata capacità di elaborare un’immagine del futuro che l’Unione e gli Stati membri vogliono contribuire a disegnare. Non un futuro a caso, ma il futuro nel quale i valori fondamentali e le prospettive dichiarate che si vogliono tutelare e perseguire siano più facilmente implementabili. Il punto è se la pandemia e la reazione alla pandemia ci hanno insegnato qualcosa oppure no.

Il mondo post-pandemia sarà infatti (già è) un mondo nel quale la sfida principale verterà sui principi della sua governance e sulla gerarchia tra i valori materiali e immateriali. Lo hanno capito perfettamente oltre Atlantico, dove i potenziali sfidanti per la leadership globale vengono incalzati proprio su questo, sull’elemento normativo. Il presidente Biden ha fatto del vecchio slogan wilsoniano «Make the world safe for democracy!» il suo cavallo di battaglia, anche per sbugiardare i suadenti “cavalli di Troia” rappresentati dalle ricche compagnie cinesi (ma anche russe o saudite) che sempre di più si affollano dentro le mura delle nostre città, rendendole vulnerabili alle pressioni e ingerenze dei loro dittatori.  Uno sforzo, quello di Biden, che  può avere successo solo a condizione di rendere nuovamente distinguibili le democrazie dalle non-democrazie anche per il modo diverso, inclusivo e rispettoso con il quale devono tornare a gestire i rapporti tra capitale e lavoro. Non per caso mentre attacca a testa bassa Mosca e Pechino, Joe Biden mette nel mirino le grandi corporations globali – le più importanti delle quali hanno un “passaporto” a stelle e strisce – per la loro scandalosa elusione fiscale: da record anche nell’anno della pandemia.

«Dittatore» è proprio la parola che Mario Draghi ha impiegato per descrivere il presidente turco Erdoğan, in una recente conferenza stampa: provocando l’irritazione di Ankara, l’imbarazzo delle altre capitali europee, e un certo spaesamento nel dibattito politico-giornalistico italiano, che spesso riesce a unire scurrilità e tartufismo. Ci si è interrogati a lungo se quell’espressione fosse “sfuggita” a Draghi ovvero se nel nome dei buoni affari (e delle crescenti rivalità mediterranee) che ci legano alla Turchia non sarebbe stato più opportuno evitare di ricorrere a una descrizione così rude, eppur sinteticamente precisa, del ruolo politico di Erdoğan. Singolare che questo sia avvenuto a ridosso dello sgarbo della poltrona negata a Ursula von der Leyen – come se la medesima cultura politica che porta il “sultano di Ankara” a trattare la presidente della Commissione da imbucata a una riunione per soli uomini non fosse alla radice anche della sistematica violazione dei diritti dei suoi oppositori, dei suoi cittadini, delle sue cittadine.

Poco dopo, a ricordarci che la razza dei dittatori non è per nulla in via di estinzione (compresi gli amici sauditi del “nostro di Rignano”) è intervenuto il diktat putiniano contro il presidente del Parlamento europeo (David Sassoli). E per amore di completezza, ricordo anche che in Cina – lo sfidante più accreditato della leadership americana – l’ultimo e l’unico presidente a vita prima di Xi era stato Mao. Solo Mao.

La sfida sui principi e sui valori in base ai quali desideriamo – non meramente “prevediamo” – sia governato il mondo è aperta ed è decisivo che l’Europa – se vuole avere un futuro – scelga concretamente da che parte stare. E si muova ovviamente con coerenza anche all’interno dei suoi confini: il tema delle migrazioni essendo la principale pietra dello scandalo. I diritti umani – di tutti gli umani – non possono essere una categoria utile solo a fini di polemica politica interna per una sinistra da Ztl (l’equivalente nostrano della gauche caviar) a corto di idee e incapace di rappresentare vecchi e nuovi disagi. Rappresentano invece una questione dirimente, una vera e propria bussola concettuale, per contribuire a trovare un nuovo passaggio a Nordovest capace di ridare slancio alle nostre democrazie mature e affaticate.