Quando il burocrate dell’Olocausto e la spia che amava l’Actor’s Studio s’incontrarono

Notte, erba alta e un binocolo nascosto puntato su una casa. Dalla finestra un uomo di mezza età si sporge da dietro al vetro per mostrare al bambino che ha in braccio i treni passare sul binario adiacente. Una scena di vita quotidiana, a pochi chilometri da Buenos Aires, in campagna, all’inizio degli anni sessanta, che si trasforma immediatamente, nello sguardo da dietro il binocolo, in un paradosso grottesco.

Farebbe parte della normalità se l’uomo alla finestra fosse l’argentino Ricardo Klement, diventa macabra ironia perché in realtà è Adolf Eichmann. SS-Obersturmbannführer del Terzo Reich, esperto di questioni ebraiche e responsabile dell’organizzazione del traffico ferroviario verso i campi di concentramento. Scappato dalla Germania dopo la guerra, e sfuggito al processo di Norimberga e, dal 1953, vive in Argentina sotto falso nome.

È in questo modo che il regista Chris Weitz in Operation Finale (Film del 2018, in streaming su Netflix) – classico film d’azione che sa dosare bene il contesto storico, politico e dramma personale – chiude la fase di ricognizione, il contatto visivo tra la mente della soluzione finale e Peter Zvi Malkin, agente segreto del Mossad.

Un “valoroso, forte come un toro, pieno di fantasia tattica”, come lo definirà il suo collega più celebre Rafi Eitan. Una spia che preferisce agire disarmata “per non essere tentato di sparare”, grande cacciatore di agenti sovietici, e “uomo dai molteplici talenti”.

Dal saggio di Michael Bar- Zohar e Nissim Mishal, Mossad – Le più grandi missioni del servizio segreto israeliano (Feltrinelli), Malkin emerge per temperamento compulsivo, ma anche talento nella pittura, scrittura e recitazione. Tanto che, anni dopo, a New York, deciderà di prendere lezioni da Lee Strasberg, fondatore dell’Actor’s Studio, e gli resterà legato per tutta la vita.

In molte delle operazioni a cui ho preso parte mi sono comportato come su un palcoscenico. Mi travestivo e alteravo i miei connotati con il trucco. In altri casi mi sentivo quasi un regista. Impartivo ordini come un drammaturgo alle prese con un copione teatrale”. Parole sue.

Ed è proprio allo “straordinario agente segreto” – come lo descriverà il corrispondente israeliano del New York Post, Uri Dan – che viene affidato il compito di entrare in scena per primo: avvicinare Eichmann/Klement al ritorno da lavoro, chiedergli: “Un momentito, señor”, immobilizzarlo e sequestrarlo per portarlo in Israele.

Non è un’operazione segreta come tutte le altre il rapimento di Adolf Eichmann. A differenza dell’azione di spionaggio del Mossad negli anni Sessanta, che si occupa della raccolta di informazioni per il futuro e della prevenzione per interesse nazionale (principalmente terrorismo islamico e minaccia di paesi ostili come l’Egitto), la cattura del “burocrate dell’Olocausto”, ha interesse a preservare una memoria passata: produrre una testimonianza dello sterminio ebraico per non mettere a repentaglio Israele dalle persecuzioni future.

È solo grazie a questa azione che sarà possibile giudicare Eichmann nel tribunale di Gerusalemme per crimini contro l’umanità, ascoltare come teste a sostegno dell’accusa centoventi sopravvissuti ai campi di concentramento, raccogliere racconti di sofferenza, orrore e assenza dell’umano perché siano trasmessi, per radio o televisioni, in tutto il mondo.

Eichmann proverà smarcarsi e a dare una propria versione dei fatti, ma sarà proprio riconoscendo la responsabilità di aver agito come ogni buon soldato durante la guerra, semplicemente obbedendo agli ordini, che Hannah Arendt lo descriverà come l’incarnazione dell’assoluta banalità del male.

Un momento fondamentale per la storia d’Israele di cui David Ben Gurion, il “grande vecchio”, primo ministro al tempo della cattura – e fondatore del Mossad stesso –  è ben consapevole. Non è un caso che in Operation Finale, sia proprio lui a specificare prima che la squadra parta per la missione: “Per il bene del nostro popolo, vi scongiuro, non fallite. La nostra memoria si rifà alla storia documentata. Il libro dei ricordi è ancora aperto, e voi qui adesso siete la mano che tiene la penna”.

Nel maggio 1960 l’Argentina si appresta a festeggiare i centocinquant’anni della sua indipendenza e Isser Harel, direttore del Mossad, approfitta delle celebrazioni per organizzare un volo con la compagnia di bandiera El-Al e inviare una delegazione israeliana a titolo diplomatico. Soltanto una copertura: il mezzo più rapido per condurre Eichmann a Tel Aviv dopo la cattura.

La squadra di Harel entra nella fase operativa, rendendosi invisibile nelle strade di Buenos Aires: come scrivono Bar – Zohar e Mishal nel loro libro, il direttore del Mossad “portava in tasca una lista con i nomi dei trecento caffè sparsi per la città, corredati di indirizzo e orari di apertura. Ogni mattina faceva una passeggiata tra i diversi locali, seguendo un itinerario e una tabella di marcia. In questo modo i suoi uomini sapevano sempre dove trovarlo a qualunque ora della giornata”.

Unico inconveniente: bere litri di caffè argentino forte. Ed è in questa fase del piano, nel passaggio dalla ricognizione all’azione, che Operation Finale fa uno scarto in avanti per entrare nella dinamica della messa in atto: se la prima parte del film si concentra sullo studio teorico del piano e il regista concede ai ricordi dei suoi protagonisti di prendere spazio e occupare l’immagine, con la danza di Harel nei bar di Buenos Aires, a ritmo di tango, il film accelera, prende il passo del genere d’azione, per arrivare alla corsa in aeroporto sulla musica di Alexandre Desplat.

Sulla cronaca di una realtà romanzesca, come quella della cattura di Eichmann a Buenos Aires, Operation Finale non ha bisogno di aggiungere effetti speciali o sconvolgere di tanto il baricentro dal documentato al fantastico: la sua trama di per sé è già epica contemporanea.

Il merito che va alla regia di Chris Weitz è saper dominare e gestire quel confine sottile che sta tra la vendetta privata di ciascun agente del Mossad – tra gli interpreti c’è Mélanie Laurent, la Shoshanna di Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino, personaggio che ripara al torto subito con una rappresaglia – ognuno superstite all’Olocausto, con le proprie famiglie scomparse nel nulla, e la volontà di lavorare per la giustizia e consegnare il proprio carnefice al tribunale della storia.

Quello che il Mossad da sempre persegue nelle proprie azioni, l’invisibilità e la mancata conoscenza totale del suo operato, per l’identità dei suoi agenti, i luoghi e le modalità, con la cattura di Eichmann viene in parte messo da parte.

L’impresa entra di fatto nella storia del Paese, ne costruisce il ritratto di una nazione giovane, ed è di esempio per le future unità che entreranno nell’istituto di spionaggio. Non ripristina l’equilibrio dal torto subito per il popolo ebraico, ma consegna ai superstiti il diritto a dare un nome e un cognome al dolore, una responsabilità a un massacro, la possibilità di documentare per sempre un orrore che non dovrà mai più ripetersi.