Padre Puglisi: il vangelo della speranza

A padre Pino Puglisi spararono a Palermo, nel quartiere Brancaccio, davanti al portone dello stabile di case popolari in cui abitava in Piazzale Anita Garibaldi, il 15 settembre 1993. Era il giorno del suo 56° compleanno. Accorsero i vicini, arrivò l’ambulanza, si radunò una piccola folla. E se c’è un particolare che tutti i presenti ricordano di quei momenti terribili è questo: che padre Puglisi, riverso là a terra e sanguinante, aveva le scarpe bucate. Un’immagine che mi ha fatto sempre tornare alla mente l’affettuosa descrizione che di lui dava il fratello Franco: «Mio fratello era piccolo, ma aveva il 43 di piede e mani grandi così. In più, aveva le orecchie a sventola e la testa pelata».

Povero, piccolo, umile. Senza scorta o protezioni di sorta. Un prete che raramente alzava la voce e sventolava la bandiera dell’antimafia ma lavorava come un mulo in una parrocchia di periferia. Perché, dunque, la cosca dei Graviano, che dominava Brancaccio, sentì il bisogno di farlo eliminare dai suoi due killer più spietati ed efficienti, Gaspare Spatuzza e Salvatore Grigoli, due che avevano decine di omicidi sulle spalle? In quegli anni la mafia, proprio con il contributo dei Graviano e dei loro uomini, da un lato dava l’assalto allo Stato (Salvo Lima viene ucciso il 12 marzo 1992, il giudice Falcone il 23 maggio, il giudice Borsellino il 19 luglio; tra il 27 maggio e il 28 luglio del 1993 arrivano le bombe a Firenze, Milano e due volte a Roma, con un totale di 21 morti) e dall’altro prova a stringere patti con il potere politico che quello Stato avrebbe dovuto rappresentare. Le cosche avevano cose più importanti a cui badare che non un pretino in apparenza ininfluente. Perché decidere un gesto così clamoroso e inedito come l’ammazzamento di un sacerdote per strada, in pubblico, perché tutti sapessero e capissero?

Questa domanda mi ha tormentato per tutto il lungo lavoro su Padre Pino Puglisi, martire di mafia (Edizioni San Paolo), il libro che ho dedicato al parroco di Brancaccio. E la risposta poteva arrivare solo con una profonda immersione nella storia di Tre P (padre Pino Puglisi), come il sacerdote amava firmarsi.

Puglisi era arrivato a Brancaccio nel 1991. Mentre in tutta Italia si spendevano miliardi per costruire gli stadi di Italia ‘90, il campionato mondiale di calcio, il benvenuto nel quartiere a lui lo dà un comitato spontaneo di cittadini che gli chiede aiuto, perché Brancaccio ancora non ha le fogne, i lavori si sono interrotti per una delle solite storie di appalti e mazzette, e ora i liquami scorrono nelle strade dove giocano i bambini. Negli scantinati di certi palazzoni si è insediata la malavita, che li usa come deposito di droga e armi (sarà tenuta qui anche la pistola che uccide Puglisi), teatro di combattimenti di cani e persino come bordello per la prostituzione, anche minorile. I bambini lasciano presto la scuola e diventano corrieri dei traffici peggiori.

Puglisi si mette subito all’opera. Fonda il Centro Padre Nostro, per portare un soccorso concreto e immediato ai più poveri. Apre l’oratorio. E si batte per la sua gente, instancabile, fino alla fine: quando lo uccidono, sta tornando da una riunione in Regione per discutere, ancora una volta, di quegli scantinati della vergogna.

Tre P, però, non è un santo ingenuo, uno spinto solo dall’amore, che non sa dov’è e chi lo circonda. Puglisi sa benissimo di trovarsi in un feudo della mafia. È vero che è l’amore a spingerlo, accompagnato però dall’esperienza e dalla cultura. Prima di arrivare a Brancaccio, il sacerdote ha lavorato in tutte le situazioni di crisi della sua isola. Nei quartieri poveri di Palermo, popolati di ex contadini inurbatisi nel dopoguerra. Tra i terremotati del Belice. Con gli orfani. Nei paesi della montagna scossi dalla povertà e martoriati dalle faide. Conosce tutto perché ha toccato tutto con mano. Ma è anche un uomo colto, preparato, con una testa di prim’ordine. Quando sgomberano il suo appartamento, devono far venire un camion per portare in diocesi i suoi libri, migliaia di volumi che spaziano dalla teologia all’antropologia, dalla narrativa alla psicanalisi. Sa parlare ai giovani, per meglio dire: gli viene naturale toccare il loro cuore, affascinarli e coinvolgerli. Non a caso nel 1979 diventa direttore del Centro Vocazioni della diocesi di Palermo.

È proprio questa miscela (amore, esperienza, cultura) a rendere padre Puglisi inimitabile. E a metterlo nel mirino della mafia che, quando lo uccide, è al massimo della potenza e dell’ambizione. Perché Puglisi con la sua gente, e soprattutto ai ragazzi, fa un’operazione semplicissima: mostra che un altro mondo esiste, un’altra vita è possibile. Una vita dove la sopraffazione è inutile e il rispetto reciproco una condizione naturale. Dove la violenza è bandita grazie al rispetto delle regole. Dove l’allegria è possibile e l’affetto conta, e i bisogni si possono soddisfare senza fare la faccia feroce o tenere una pistola in mano, perché si può contare sugli altri. Una lezione di vita senza prediche (la «audace mitezza» di cui parla monsignor Lorefice, arcivescovo di Palermo) e quindi tanto più convincente, soprattutto per le madri e i ragazzi di Brancaccio.

È proprio questo che la mafia non può tollerare, che si prospetti alle persone un «sistema» diverso da quello che essa implementa e amministra. A Brancaccio, poi, dove i «militari» (Spatuzza, il killer di Puglisi poi pentito, entra tra l’altro anche nell’assassinio di Borsellino e nella strage di via dei Georgofili a Firenze) della famiglia Graviano regnano, non può proprio essere sopportato, è uno sgarro inaccettabile. Padre Pino Puglisi, beato per la Chiesa e medaglia d’oro al valor civile per la Repubblica, muore per questo. Per aver praticato e insegnato la speranza.