Sono passati giusto dieci anni dal mio incontro con Joan Didion a New York. L’occasione: un’intervista per Vanity Fair per l’uscita in Italia di Blue Nights (Il saggiatore), un libro che racconta la nostra incapacità di accettare la prospettiva del declino e della morte anche quando quell’orizzonte si fa così vicino da poterlo quasi toccare.
Joan Didion è morta il 23 dicembre a 87 anni. Ma la morte era diventata una costante della sua esistenza privata e letteraria da molto prima. Il suo libro, tuttora più noto, L’anno del pensiero magico, raccontava la perdita improvvisa del marito, lo scrittore John Gregory Dunne, e la lunga malattia della figlia Quintana.
Due lutti che si erano intrecciati in modo terribile: Nel dicembre del 2003, un attacco di cuore aveva ucciso John Gregory Dunne mentre Quintana si trovava in coma in ospedale per complicazioni dovute a una polmonite. Si sarebbe ripresa, per avere, non molto tempo dopo, un nuovo gravissimo problema di salute e, infine, morire e 39 anni, nel 2005, per una pancreatite acuta.
Sono andata a ricercare quell’intervista appena ho letto la notizia della scomparsa della Didion. L’ho trovata, per fortuna, perché non avrei saputo ricostruire a memoria le sue parole, solo un vago eco del breve momento che avevo trascorso con lei.
Mi aveva chiesto di incontrarla nel suo appartamento nell’Upper East Side, disseminato di scatole di ricordi e oggetti che appartenevano alla figlia. Quintana era una fotografa e la Didion si era fatta inviare stampe e negativi per evitare che finissero in uno scantinato. Ma c’erano anche oggetti che risalivano alla sua infanzia e che Quintana aveva preferito rimanessero nella sua camera di quanto era bambina.
L’esistenza nel mio hard disk del file con dentro il resoconto di quel dialogo, in misura enormemente piccola e depotenziata, riflette quello che scrittori e scrittrici come la Didion hanno saputo fare: usare la scrittura come antidoto alla dissolvenza.
Mi raccontò che Quintana aveva messo da parte anche alcuni compiti di scuola. Quando la Didion li aveva riletti era rimasta sorpresa. In quei fogli aveva trovato una versione di sua figlia bambina che non coincideva con i suoi ricordi di madre: “più riflessiva e matura di quando me la ricordassi”. E aveva trovato una spiegazione. Disse di non essere mai riuscita smettere di pensare a lei come una bambina: “Un tentativo di proteggerla: se è ancora piccola non può morire”.
Un’altra possibilità è che ogni volta che usiamo la scrittura in modo creativo, non importa che siano i compiti di scuola o un romanzo, non solo preserviamo un pezzetto di realtà ma, appunto, ne creiamo un’altra. Che è quella che resta.
Qui sotto, trovate alcuni stralci di quell’intervista “sopravvissuta”.
Scrive: “Quando parliamo di mortalità parliamo dei nostri figli”.
“Sì”.
Scrive anche che il rapporto fra genitori e figli oggi è molto diverso. In meglio o in peggio?
“In peggio. Non li lasciamo più liberi come una volta. Come ho fatto io con Quintana. Non le ho dato abbastanza libertà, non le ho dato abbastanza credito, e non l’ho lasciata abbastanza da sola. Mi sono sempre assunta il compito di prendere le decisioni. Ma lei era assolutamente in grado di farlo per conto suo”.
Per proteggerla dai problemi? In definitiva dalla morte?
“Sì”.
Si ricorda se c’era qualcosa che temeva in particolare?
“Quando abitavamo a Hollywood, avevamo un’altalena nel cortile. Quando arrivava in alto, oltrepassava l’edera, e io avevo paura che un serpente potesse sbucare da lì e morderla. E avevo paura che potesse bere un detergente o qualcosa di simile. E che l’ “Uomo rovinato” dei suoi incubi (come racconta nel libro, era un personaggio malvagio che da piccola Quintana sognava di frequente, ndr) potesse esistere davvero. Un pensiero folle”.
A un certo punto dice: “Non ho attuato alcun tipo di adattamento alla vecchiaia”.
“Fino a che John è stato vivo, mi sono sempre vista attraverso i suoi occhi. E quello che lui vedeva era la stessa giovane donna che aveva sposato”.
Perché è così difficile fare i conti con la morte?
“Perché nessuno vuole morire. Non riesco a immaginare che un giorno possa accadermi”.
Però ha anche scritto che c’è stato un momento in cui non poteva immaginare di non morire.
“Ammalarmi, o avere un incidente e non essere più in grado di fare quello che voglio è la mia più grande paura. Non penso alla morte, penso a quello che succederebbe se non morissi”.