Piazzolla: vita e tango in fuga dal conformismo

Prima di Astor Piazzolla, il tango era un “rettile da lupanare” secondo il poeta Leopoldo Lugones, dopo, uscendo dai bordelli, prendendo l’aria delle finestre di New York, mischiandosi ai suoni di un altro emigrante suo vicino di casa, un ungherese, Bela Wilda, allievo di  Rachmaninoff, che suonava Bach, divenne il culmine di una linea evolutiva musicale che tendeva a Gershwin. Quella linea evolutiva ebbe inizio a Mar del Plata l’11 marzo del 1921, con la nascita di Astor e il conseguente trasferimento a New York, con immersione in una atmosfera da C’era una volta in America, Gli intoccabili e Il Padrino. Un italiano d’Argentina, col padre Vicente, alias Nonino, che nella vasca da bagno ci allevava il whisky, e che divenne uomo di Nicola Scabutiello, discreto capomafia, un Clemenza, potremmo dire con Puzo e Coppola. Vicente Piazzolla e sua moglie Asunta Manetti, erano italiani schiacciati dalla miseria, bordeggiando l’illegalità la scamparono, permettendo ad Astor di non perdere il contatto con l’Argentina attraverso uno strumento, il bandoneón, nato come deroga per sostituire l’organo nelle piccole ed inaccessibili chiese di montagna, inventato, una volta tanto, da un tedesco, Heinrich Band, poi importato in Argentina, divenuto pure strumento di tango passando nelle orecchie di Vicente a Mar del Plata attraverso i dischi e poi finito nelle mani di Astor per cambiare definitivamente il genere.

Ma come tutte le più belle cose aveva bisogno di una lenta costruzione, Astor suona Bach col bandoneón rifacendo Bela Wilda, mentre la sera vede a orecchio sentendole dalla strada ad Harlem, alla porta del Cotton Club, le orchestre di Duke Ellington e Fletcher Henderson, e soprattutto Cab Calloway.  Una finestra e una porta di New York cambiarono la colonna sonora sotto il cielo di Buenos Aires. Fu così che poi il suo tango divenne “celebrale” che dal corpo si spostò alla mente, raffinando l’eros. Il resto lo fece a Parigi la compositrice Nadia Boulanger che, dandogli lezioni, lo spinse a suonare quello che gli apparteneva. Piazzolla ubbidì, anche se ci mise le mani, trasformando il suono del bandoneón: mettendo a sedere a teatro le note del tango dopo averle raccolte nelle strade di Buenos Aires. Forse perché nato con un piede storto e una gamba debole, una sorta di Garrincha del tango, non potendo ballare, decise – tirannicamente – per un tango d’ascolto. Estese la sua impossibilità a tutti, legandoli a una musica innegabilmente grandiosa e sicuramente articolata, come disse uno dei patriarchi del tango, Osvaldo Pugliese, quando fu chiamato in veste di Salomone a dirimere la questione sulla “roba” prodotta da Piazzolla:

«è più complicato, ma è tango».

Intanto, fu considerato un Giuda, e ne pagò le conseguenze, soffrendo per lo scarto dato alla musica, che non è solo musica: è mondo, bandiera, religione, in Argentina. Per fare un paragone italiano bisogna pensare al passaggio di Lucio Battisti da Mogol a Pasquale Panella e moltiplicarlo per tre. Sconvolgere i canoni del tango e avere successo all’estero, infervorò gli animi a Baires, dove tutti si sentivano autorizzati a sputargli addosso: dai tassisti agli speaker radiofonici, in un paradosso meraviglioso, perché Astor aveva suonato per Carlitos Gardel a New York nel 1934, e recitato in un suo film da ragazzino, El día que me quieras (1935), diventando poi l’allievo e l’erede di Aníbal Troilo (per la sua morte comporrà la Suite troileana): che andava ad ascoltare al Café Germinal – dove poi lo sostituirà – acquisendo la melodia di Eduardo Arolas: El tigre del bandoneón. Era nel solco della tradizione, poteva tenersi l’eredità e amministrare il patrimonio, ma era un inquieto, figlio della frenesia newyorkese, pur vivendo la grande epoca del tango negli anni quaranta, capì che doveva spostare un po’ più avanti quel genere. Già il tango argentino, all’inizio allegro, prese una piega nostalgica per via dei compositori italiani che ci mettevano il rimpianto per l’Italia lontana, mascherandolo da amore perduto, da tradimento, poi arrivò Piazzolla e lo sublimò: tenne la nostalgia, ma ne fece psicanalisi, la portò all’apice della trasformazione dandole una struttura complicata, depurandola dall’ammicco di piazza, ed esaltando la possibilità di virtuosismi, da alluvionale il tango, con lui, divenne movimento strutturato, con rimandi complessi e biografici. Non a caso la più famosa e orecchiabile delle sue composizioni – utilizzata in spot, film e serie tivù – Libertango

«sembra tango arrangiato da Quincy Jones»

come dice suo figlio Daniel nel documentario “Piazzolla, los años del tiburón” di Daniel Rosenfeld. Astor è figlio della solitudine e dello sradicamento, sa cosa vuol dire andare e venire, e sa che in ogni trasloco si perde qualcosa: «Sono cresciuto colpendo e difendendomi. E continuo a farlo». A New York faceva a botte e a Mar del Plata pescava. Boxer negli Stati Uniti – una volta anche con Jake LaMotta –, pescatore in Argentina e in Uruguay, a Punta del Este, di squali. In questa oscillazione c’è il bandoneón della sua vita. Un’onda anomala. Il suo tango è una esperienza individuale e dispari. Che poi lui riuscì ad annodare a Gerry Mulligan e Horacio Ferrer, Milva e Vinicius de Moraes: in uno spargimento musicale su meridiani e paralleli, immaginandosi anche con i più giovani Pat Metheny o Al Di Meola. La sua era una fuga dal conformismo e dalla pigrizia, e quindi un’altra emigrazione, che, per forza, comportava un rimpianto:

«Fin dall’inizio la mia musica è stata sempre molto malinconica, molto drammatica, molto triste. La musica drammatica mi rende immensamente felice, ascoltando Schumann, Brahms, Chopin. Non so se sia masochismo, ma la mia musica è sempre stata così, alcune composizioni saranno state più aggressive, altre molto mistiche, altre molto barocche, ma la maggior parte ha un sottofondo drammatico, molto drammatico, e io non so perché».

Aveva capito che l’unico modo per salvare il tango alla sua caricatura era di fargli salire le scale, prese «quel surrealismo da quattro soldi che accosta il violino al colibrì e la forfora al cuore» – come severamente lo scrittore Riccardo Piglia lo inchiodava – e lo tirò fuori dall’umidità della monotonia, e gli diede la possibilità di farsi musica da teatro e salotto, quelli che prima sulle note si contorcevano, dovevano piegarsi a cercare il corpo della donna e viceversa, ora potevano rimanere in poltrona e pescare il pensiero di quel movimento, senza passare dal ridicolo, senza la spinta della specie, ma col riflesso intellettuale di un pensiero passato, sublimato, ordinato, e messo in scena. Piazzolla traspone, spoglia, smonta e rimonta, e il risultato è diverso e fa incazzare, è come se avesse ripulito un quartiere povero, gentrificazione di una musica che era quartiere, città, mondo. All’affermazione di Ernesto Sábato: «il tango dev’essere tango o niente», Piazzolla risponde con la contemporaneità, con il metodo praticato da Maurice Ravel, Béla Bartók e Igor’ Stravinsky: prendere il popolare e innalzarlo, shakerandolo. Il tango che è la vita non vissuta, e il suo rimpianto, alla buona, diventa una seduta di psicanalisi – non a caso generata a New York, avendo la città la più grande concentrazione di psicanalisti nel mondo e uno dei principali cantori, Woody Allen, che ne è un prodotto, e a New York sbarcarono Sigmund Freud e Carl Gustav Jung, dicendo «Ancora non sanno che gli stiamo portando la peste» – ed è curioso che Jorge Luis Borges chiamasse il bandoneón il “vigliacco”, perché uccideva lo spirito guappo e Piazzolla con “Pianola” perché complice, anche se poi chiamato a collaborare con lui accettò, ribadendo quell’ambiguità che lo contraddistingueva, come fece anche con Jorge Videla, quasi che le ombre della sua vista avessero bisogno anche di azioni sbagliate, di sbandamenti, per giustificare un cieco che legge.

«Piazzolla ha suonato dei tanghi suoi. Mia madre credeva fosse musica brasiliana. Non sono né tanghi né niente del genere. Il tango si sente nel corpo. Ascolti un tango e cambi subito postura, ti contrai un po’. Lui li chiama tanghi solo perché se li presentasse come semplice musica i musicisti lo sbranerebbero: invece, come innovatore del tango lo tollerano e lo fomentano pure».

Non è solo Borges, sono tanti gli scrittori argentini che contestarono Piazzolla, non capendo il gran favore che stava facendo al tango: rendendolo irraggiungibile, se non si può più figurare, è perché staccandosi dai corpi diventa mito. Per ballare e per piangere e morire ogni sera: ci sono i vecchi tanghi; per tutto il resto c’è Piazzolla e la sua nuova realtà del tango. E poi chi l’ha detto che le due dimensioni non possono convivere? Una ha bisogno del corpo e l’altra solo del pensiero. Ma la vita si muove, e sposta, condanna, dà torto e ragione, così pure le parole severe scritte da Ricardo Piglia: «il tango, come la letteratura, non rispecchia una realtà, ma reclama una realtà», quando il tango di Piazzolla sembrava non averla, pareva essere aleatorio e senza cuore, troppo sofisticato e alto, fuori dal quotidiano, perso dietro le sue composizioni, i suoi miscugli di genere, annodato più al jazz che alla tradizione, e con mille titoli di giornale che gli davano borgesianamente dell’assassino, tutto viene smentito con una canzone sola e due episodi, che ricongiungono Piazzolla e Gardel, l’innovazione e la tradizione, il passato e il contemporaneo. Adiós Nonino, scritta per la morte del padre, quindi legata a una realtà, all’uomo che gli ha dato il tango e lo strumento per suonarlo, viene scelta dalla regina d’Olanda, il giorno del suo matrimonio. Máxima Zorreguieta, figlia di Jorge Zorreguieta, ministro dell’agricoltura della giunta militare di Jorge Videla, non può invitare suo padre al matrimonio, per ragioni di ipocrisia reale e convenienza matrimoniale, e per evocarlo chiede che in chiesa venga suonata Adiós Nonino, il tango del padre. Quindi il tango di Piazzolla, nato dai desideri di suo padre, ha avuto bisogno degli errori e degli sbandamenti politici di un altro padre, quello della regina d’Olanda, per diventare realtà, rimpianto, e allacciarsi con la “funzione” popolare, d’evocazione e consolazione, quasi che in ogni lacrima per nota di  Máxima Zorreguieta ci fossero anche le strette patite da Astor, le umiliazioni, le accuse, le pagine d’irrisione e quelle di dileggio, per sublimarsi, poi, nel ricongiungimento con il corpo, dopo aver svolazzato, non inutilmente, per il cielo e nei teatri di mezzo mondo, trovando casa in una argentina d’Olanda. A ribadire che lo sradicamento è l’essenza del tango, e che serve un esiliato o una emigrante – seppure di lusso – che deve riprendersi la vita che ha mancato, per dargli una dimensione. E quella dimensione, piaccia o no, ieri no, ma oggi, domani e dopodomani ancora e ancora, è la musica di Astor Piazzolla.