Piero Chiara e il lettore di oggi

Il lettore che si accostasse oggi al mondo di Piero Chiara, per quanto bene intenzionato, non potrebbe reprimere un inconfessato moto di leggera indignazione. Tanti, troppi, uomini affollano il teatro maschile di Chiara. Prendiamo l’Emerenziano Paronzini:

«un uomo sodo, cioè serio come uno svizzero, di poche parole e di nessuna confidenza. Uno dei venti o trenta personaggi della burocrazia statale a Luino, ma con l’aria di essere uomo pubblico suo malgrado, per un particolare destino che lo distingueva nettamente dagli altri funzionari».

Niente di che, ma al lettore odierno, certamente più sensibile alle istanze contro il patriarcato, non sfuggirà come, nonostante la modesta posizione occupata, il Paronzini goda di una stima e di una posizione sociale preclusa alle donne: e, giustamente, egli s’indigna (assicurandosi di essere in presenza di almeno una donna che possa benevolmente approvarlo), riservandosi d’indignarsi ulteriormente nel proseguimento della lettura. Quanto facilmente si scandalizza il nostro sensibile lettore d’aujourd’hui! E possiamo facilmente immaginarlo inorridire, inebriato dalla obbligatoria correttezza politica, per quella che è forse la figura d’uomo più discutibile dei racconti del Chiara: Augusto Vanghetta, pretore di Cuvio, «vestito sempre di fustagno con abiti senza forma, sporchi, infarinati di forfora sul colletto della giacca, a tubo di stufa sulle gambe, gonfi dovunque della sua grassezza da topo e in particolare sul ventre, anzi sull’inguine, dove erano più unti che altrove, tanto che a Cuvio venne subito soprannominato “Pattavuncia” ovvero patta unta».

Figure, tutto sommato, molto modeste, pretore incluso, ma maschili, e dunque preponderanti, strabordanti: uomini senza qualità, o peggio ancora, con qualità talmente discutibili da far sorgere ben più d’un sospetto. Cosa avranno mai fatto, queste mezze tacche, per meritarsi tanta considerazione sociale, tanto indiscusso rispetto? Il nostro lettore ha smesso di sospettare tempo addietro, quando ha cominciato a buttar giù statue e a biasimare il patriarcato in ogni sua forma, anche quando la forma manca del tutto, e sa già la risposta, perché il bello delle risposte di questo tipo è che non richiedono fatica alcuna, se non quella di scartocciarle e adattarsele alle opinioni del momento, come una vecchia zia che convochi il tappezziere di fiducia per farsi rifoderare l’ottomana del salotto con un tessuto più à la page. «Sono uomini, e tanto basta», pensa il nostro, in un mondo di uomini, a loro esclusiva misura costruito, e in cui le donne contano poco o nulla, e quando contano, è solo per le faccende domestiche, sfornar pargoli alla Patria (ove la Patria lo richieda) o a suocere petulanti e desiderose di nipotini da tenere ben lontano dall’ottomana recentemente rifoderata.

Quello che il nostro lettore moderno, così ben informato (sebbene alcuni di noi direbbero imbeccato), decide di ignorare, forse per quieto vivere, è che il mondo di Chiara e la società che si muove e si agita nel suo teatrino son due cose molto diverse e che in arte e in letteratura raccontare e aderire son due cose ben diverse.

Prendiamo per primo il Paronzini. Nella Spartizione sembra si piazzi in casa Tettamanzi a farsi servire, riverire e soddisfare da Camilla, Tarsilla e Fortunata, all’apparenza «tre frutti malformati di un matrimonio che era stato di puro interesse, tra il loro padre una specie di pappagallo con le gambe storte e la loro madre, mal sortito avanzo di una vecchia famiglia». Eppure è la stessa Tarsilla a far credere al bel seduttore locale, l’infido sfaccendato da bar Paolino Mentasti, che sia lui a sedurla e che sia per amore che accetta di incontrarlo carnalmente in sacrestia, «tutti i giovedì quando la biblioteca è fermata al pubblico». La stessa Tarsilla che, messa di fronte alla prospettiva dello scandalo derivante dalla scoperta della tresca, alza le spalle, dice fate, fate pure, figurarsi se sposo il Mentasti. E sono Fortunata e Camilla a offrirsi in pasto al paese: «Si credevano al sicuro, specialmente Tarsilla e Camilla; e lo erano, nonostante il pettegolezzo che cresceva e le indicava come tre streghe che avevano catturato un impiegato statale e lo tenevano in signoria cibandolo di uova, di miele, di torte, di pollastri e altre carni innaffiate dal vino di Gattinara e di Barolo di cui erano piene le cantine del povero Mansueto». E le chiacchiere che il Paronzini finge d’ignorare, e delle quali in realtà si bea, sono proiettili che le tre donne affrontano – è proprio il caso di dire – a petto nudo, e che le tre sorelle Tettamanzi, del patriarcato, se ne fottono, e lo lascino lì a schiumar rabbia e chiacchiere da bar.

Senza contare che, a una più attenta lettura (che egli, purtroppo, rifugge), il nostro lettore odierno scoprirebbe che Evelina Vanghetta, moglie solo di nome del pretore di Cuvio, comunica al marito, di essere incinta, e che lo fa senza il cattivo gusto di tirare in ballo l’Immacolata Concezione, con un dialogo che Chiara dipinge in modo da far tremare le vene ai polsi di generazioni di suffragette:

«Senti, cominciò quando le fu davanti, parliamo con calma, da amici…».
«Sì, parliamo con calma».
«Oh! Benissimo».
«Benissimo. Dunque stai a sentire: ieri il dottor Broggi, confermando i miei dubbi, ha trovato che sono in stato interessante».
«Cosa hai detto? Interessante? Vuoi dire incinta?».
«Incinta, incinta. Di tre mesi».
«E ad opera di chi?».
«Dell’aria, dell’acqua…».  
«Il Vanghetta balzò in piedi, afferrò un tagliacarte d’osso, lo alzò, lo scagliò per terra, poi ricadde pesantemente a sedere sulla “savonarola” come se vi arrivasse dal soffitto. Evelina restava in piedi, con gli occhi bassi, non per vergogna o timore, ma per carezzarsi con lo sguardo il ventre che cominciava a modellarsi sotto il vestito nero di tulle».

E lascia il Vanghetta, novello San Giuseppe, alle prese con un mondo – quello sì, maschile – che sa che il padre del bambino non è, non può essere lui, e che lo chiama cornuto e mezzo uomo, e più il Vanghetta si arrabatta, cerca scuse via via più improbabili, più diventa chiaro che se Evelina non è altro che una donna e una madre, lui è indiscutibilmente, inesorabilmente, un povero pirla.

E se il lettore moderno si soffermasse per un attimo sulla grandezza delle donne di Piero Chiara e non sul mondo che le ha viste nascere e combattere ad armi dispari, forse, anche se solo per un momento, verrebbe colto dal sospetto di essere sì politicamente corretto, ma anche indiscutibilmente, inesorabilmente, un povero pirla.