Comincia dalla Russia sofferente del 1938. «Quando mia nonna Lidija Kozlova e sua figlia, mia madre Irina, allora diciottenne, sono state espulse dall’Urss. All’epoca il capofamiglia Luigi, italiano russificato (era in Russia con la famiglia d’origine dall’età di due anni, dal 1895), insegnante di fisica e matematica in una città di provincia della regione di Stavropol’, era presumibilmente già morto, assassinato nei sotterranei dell’nkvd a Batumi sul Mar Nero».
Ottant’anni, la faccia scavata, Sergio Rapetti parla lento, con saggezza. Per chi si occupa di russistica resta un punto di riferimento. È nato e cresciuto nel grembo della cultura russa del Novecento. La vita l’ha passata a scrivere e tradurre. All’inizio versioni di romanzi e saggi della stagione del samizdat, l’autoeditoria libera dalla cappa della censura, tra gli anni Cinquanta e Ottanta, che ha visto in Unione Sovietica la nascita o riscoperta di testi d’ogni genere, anche capolavori letterari. Poi ha proseguito: nelle sue traduzioni si possono leggere, tra gli altri, Aleksandr Solženicyn, Varlam Šalamov, Andrej Sinjavskij, Evgenija Ginzburg, Vasilij Aksjonov, Lidija Čukovskaja, Sergej Mel’gunov, Jacques Rossi, Georgij Vladimov, Vladimir Vojnovič, Vladimir Maksimov, e nell’epoca postsovietica autori comunque «nonconformisti» come Volos, Makanin, Aleksievič, Averincev. Ha frequentato alcuni protagonisti della contestazione civile al mai tramontato – anche dopo Lenin-Stalin – sistema totalitario sovietico. Tra gli altri Andrej Sacharov e la moglie Elena, Aleksandr Ginzburg, Jurij Orlov.
Un famiglia mutilata e cacciata è un evento tragico. Le pieghe della tua infanzia sono dolorose?
«Certo, per me e per le due profughe che, all’arrivo, non sapevano una parola di italiano. Una vita irta di difficoltà che apparivano insormontabili. Per quanto riguarda la loro patria, quell’altro dramma raramente veniva evocato: mamma e nonna preferivano raccontare a mia sorella Lidia e a me l’incanto della natura russa, la serenità dei momenti felici».
Che lingua parlavate in casa?
«In casa si parlava russo. Mia nonna per scelta non imparerà mai l’italiano».
Hai viaggiato nell’Unione Sovietica poststaliniana. Come si viveva?
«Il mio primo viaggio in urss, come accompagnatore di un gruppo di laureandi del Politecnico milanese, l’ho fatto nel 1960, appena maggiorenne: si era negli anni a cavallo tra il disgelo chruscioviano e il rigelo brezneviano. C’era una fervida speranza. Ricordo di aver incontrato nel mio omologo, l’accompagnatore-controllore di parte sovietica del gruppo, figlio di una vittima delle repressioni, un vero interlocutore in tanti simpatetici discorsi sussurrati. Così si viveva».
Da complici, se in amicizia.
«Di quel viaggio resta per me la mia avventurosa scorribanda da Leningrado a Novgorod, 390 km andata e ritorno. Ovviamente non autorizzata dai dirigenti della stazione taxi, ma attuata di proprio arbitrio, contro le imposizioni, dal tassista che rischiava il ritiro del permesso di guida. Di lì tutte, ma tutte, le mie visite successive sarebbero state sotto il segno dell’avventura e dell’incontro con persone notevoli che hanno contato molto nella mia vita».
Sei mai stato spiato?
«In Italia sporadicamente. E in urss, in molte occasioni durante i miei soggiorni, sempre volutamente brevi, ho subito una costante pressione e sono stato il bersaglio di diverse provocazioni, almeno una decina. Alcune, a raccontarle oggi, sono anche divertenti: forse un giorno mi ci dedicherò».
Perché, a un certo punto, ti è stata interdetta la possibilità di recarti in Russia? Per lunghi anni, non sei potuto tornare.
«A proposito della patente di «persona non grata» che mi ha infine precluso l’accesso in urss tra il 1977 e il 1991, l’antefatto decisivo è la mia visita a Mosca ad Andrej Dmitrievič Sacharov, nel novembre 1977. Sacharov oggi in Italia è quasi dimenticato ma è stato la “Grande Anima” del movimento legalitario nel suo paese. Mi doveva consegnare dei messaggi augurali per le imminenti Udienze Sacharov a Roma, e per la Biennale del dissenso a Venezia. Messi al sicuro i suoi testi, era iniziata per me una settimana durante la quale avevo incontrato altri esponenti del dissenso e scrittori di cui stavo traducendo i libri. Tutto il tempo pedinamenti, perquisizioni, provocazioni. Alle fine, mentre mi scortavano fin sotto l’aereo in attesa, uno dei miei angeli custodi, incrociandomi, mi ha sibilato: «Fatti ancora vedere da queste parti e ti facciamo fuori». Andrej Dmitrievič ha raccontato questo episodio nelle sue Memorie».
È vero che aveva una centrale d’ascolto in casa?
«Proprio così, in cantina. Quella volta, quando mi stavo accomiatando da lui, che aveva voluto accompagnarmi in strada, gli chiesi dove avrei potuto trovare un taxi. Lui mi disse: «Non ce n’è bisogno, sanno già, le hanno già mandato una macchina». E dopo un minuto vidi arrivare una vettura cui Sacharov mise fretta, richiamandola col braccio. Era uno che sapeva anche provocare!».
Quando sei potuto tornare hai provato un senso di riscatto?
«Sì. Le modalità del mio ritorno furono tali da risarcirmi pienamente. Venni invitato, dalla vedova di Sacharov, Elena Bonner, al Congresso internazionale che tra il 21 e il 25 maggio 1991 a Mosca avrebbe onorato la memoria del marito. Il mio invito da Mosca, indispensabile per ottenere il visto, era finito per un disguido, diciamo così, a Roma; ebbene al consolato milanese dove mi ero recato senza che si riuscisse a trovarlo, mi si presentò un affabile «viceconsole d’ambasciata». Non dovevo preoccuparmi, mi disse: «È sicuro che glielo abbiano mandato?… Ma lei ci vuole andare?» E mi rilasciò il visto d’ingresso, sulla parola – intendeva pur dire: d’accordo, s’è voltato pagina, ma noi siamo sempre qui e siamo noi a decidere».
Il primo libro di cui ti sei occupato è stato il Il libro bianco sul caso Sinjavskij e Daniel, “il processo giudiziario alla letteratura”. Il tempo scolora. Fu un evento tanto clamoroso?
«Nel 1966 Andrej Sinjavskij era un critico di punta della migliore rivista letteraria sovietica “Novyj mir”. E anche Julij Daniel’, traduttore e poeta, era un intellettuale conosciuto. Furono portati alla sbarra di un tribunale di Mosca per opere «antisovietiche» pubblicate all’estero sotto pseudonimo (Abram Terz per Sinjavskij e Nikolaj Aržak per Daniel’). Fu come dici un «processo giudiziario alla letteratura», ma fu anche un «processo-spettacolo» dove la solita repressione segreta della libera parola parlata e scritta in urss rivestiva procedure formalmente giudiziarie e pubbliche. Quello che non si era calcolato era il rilevante impatto sulla stessa società sovietica postchruscioviana e l’ampiezza delle proteste in tutto il mondo. Onestamente: grazie al comportamento degli imputati, quello fu uno dei più gloriosi episodi e dei potenti inneschi del dissenso dei quasi tre decenni successivi».
Subito dopo, però, di Sinjavskij si è fatto un monumento in vita. E invece era un intellettuale veramente anticonformista. L’autore di Una voce dal coro ma anche dei Pensieri improvvisi
«Bisogna precisare, però, in che misura gli abbia nuociuto la sua monumentalizzazione. La premessa fondamentale è che: per i due imputati Sinjavskij-Terz e Daniel’-Aržak, come per tutti gli esponenti sotto attacco del dissenso, la pubblicizzazione e il sostegno dei loro scritti, parole e azioni, da parte dell’opinione pubblica e dei media occidentali, era indispensabile come l’aria. In mancanza di quel sostegno sarebbero stati eliminati, in silenzio, in qualche scantinato».
Certo, ma non faccio un discorso storico. Dico però che si è trasformato in testimone uno scrittore, in santo un libertino.
«Egli ha conosciuto il diritto e il rovescio. Dopo l’emigrazione a Parigi, Sinjavskij ha pubblicato, anche allora solo in Occidente, importanti libri di critica letteraria e fiction, ha insegnato alla Sorbona a platee di adoranti russisti e in Italia è stato, per una dozzina d’anni e quattro direttori, una prestigiosa firma del “Corriere della Sera”. Per contro, anche per lui come per molti protagonisti del dissenso vale che, superata la guerra fredda, il suo ricordo sia sbiadito nell’enorme offerta culturale del mondo globalizzato, anche se permane nelle università e negli studi slavistici. Vale per Sinjavskij, e in varia misura anche per altri scrittori della stessa area linguistica».
Però oggi sembrano più letti e apprezzati autori che tu non ami. Per esempio Zachar Prilepin. O Eduard Limonov.
«Semplicemente non ho frequentato né loro né i loro libri con l’impegno che riservo a libri e autori che mi hanno conquistato. Però entrambi sanno scrivere e i loro sono libri veri. Esprimono cioè sinceramente, magari con un certo insistito brutalismo, ciò che essi stessi sono e pensano, in un paese che dipingono come drammaticamente depauperato d’ogni valore e della possibilità di qualsiasi onesto rapporto tra persone. Entrambi hanno rivestito, esclusivamente almeno in una fase della loro vita anche letteraria, una certa virilità superomistica (non solo metaforicamente: come molti sanno Prilepin è stato graduato delle forze speciali russe, gli Omon, in Cecenia, Limonov addirittura è stato guerrigliero panslavista al fianco di Arkan in Serbia). Insomma si sono messi addosso le divise paramilitari dello sciovinismo «grande russo» più agguerrito».
Sono pure due scrittori molto diversi.
«Prilepin va acquisendo una visione più ampia che ad esempio l’ha portato ad affrontare nel romanzo di docufiction Il monastero un tema dalle implicazioni scottanti: quello della nascita nel 1923 dei lager’ delle isole Soloveckie, divenuti il prototipo per l’intero successivo sistema dei campi di lavoro correzionale dell’urss che è il più noto Gulag (e, aggiungo io, storicamente modello e magari stimolo per consimili istituti di lavoro schiavo, tipo gli attuali laogai). Ne Il monastero il narratore non mi sembra neutrale ma partecipe: alle Solovki si sta realizzando l’utopia dell’uomo nuovo, i suoi addetti, funzionari del partito e della Čeka e guardie, vi stanno, con personale e strenua dedizione, riforgiando, oltre alla feccia di sempre, i più irriducibili ex-uomini delle classi compromesse dell’ancien régime, in definitiva da sterminare».
È senz’altro vero anche se il libro non ha la spontaneità e la sincerità di quell’esordio bruciante che è San’kja. A tratti sembra scritto per essere considerato un opus, ricerca la monumentalità. Limonov invece non ha avuto una tentazione del genere.
«Limonov lo sento meno lontano. Mi sono fermato a tre dei primi libri pubblicati solo all’estero e strenuamente autoreferenziali: due di queste sue prime opere, Podrostok Savenko (L’adolescente Savenko, Savenko era il vero cognome dello scrittore) e Molodoj negodjaj (Giovane canaglia) addirittura li ho letti freschi di stampa, tra il 1983 e 1986, nella piccola editrice/stamperia Sintaksis di casa Sinjavskij, rue Boris Vildé, Paris-Fontenay aux Roses, dove capitavo spesso. Il terzo, Eto ja – Edička (Sono io – il vostro Edoardino) era uscito a New York nel 1979 e l’avevo subito letto. C’è tutto Limonov; un critico dei nostri giorni (Dmitrij Bykov) ha rilevato che in Edička c’è un tale dolore, di carne denudata, ma non semplicemente messa a nudo, scorticata, e in quel dolore ci vede calde lacrime sentimentali, infantili, dense di calore umano, destinate però a ghiacciarsi per sempre in freddo sgomento. E questo, secondo me, sarebbe stato il seguito: il manierismo. Limonov manierista sgomento di se stesso (c’è dentro di tutto: anche l’eroe nazionale russo) e così fino alla morte».
Il poeta era migliore dello scrittore?
«Ricordo qualche circostanza legata all’attività poetica e per quel poco che ne posso dire Limonov prosatore è più efficace. La sua militanza poetica personale risale ai primi anni ’70, poi lo ricordo coredattore di un almanacco, Apollon-77 di poesia e arte uscito a Parigi, grazie al mecenatismo di Michail Šemjakin, dove Limonov presentava un gruppo poetico del quale faceva parte. Il nome e il programma del gruppo era “Konkret”, e Limonov ne diceva che sostanzialmente essi rappresentavano l’“antipoesia” – Rapetti preleva dalla biblioteca più vicina il voluminosissimo «in quarto» e riassume quel che legge– : “antipoesia”, poiché in quella Russia dove regnava un barbaro linguaggio popolare, la babelica mescolanza delle lingue, solo in quel modo si poteva scrivere; ogni altra scelta avrebbe spacciato per viva e vera poesia la bambinesca imitazione della passata cultura poetica. L’altro ricordo che ho dell’intimo certame poetico, evidentemente durato tutta la vita, è un testo, pubblicato sul sito russo Ad marginem il 18 marzo 2020, il giorno dopo la sua morte; è Limonov stesso a parlare della propria opera omnia poetica che sta realizzando: non appena raccoglie 120 pagine di poesia della sua vasta produzione edita e inedita, pubblica un volume; ne sono usciti già 8, e, rendendosi conto che il criterio quantitativo non è l’unico possibile, lascia ai posteri di farne la silloge di ciò che veramente vale».
Proprio al tempo delle sue prime prove poetiche, nascevano in Russia i primi gruppi informali per i diritti, che erano al cuore del dissenso e con il dissenso Limonov non c’entrava.
«Era a Parigi o a New York, e come quasi tutti i suoi sodali della bohème artistica delle due capitali (Mosca e Leningrado) non era neanche contiguo al Movimento democratico per i diritti civili nelle sue varie espressioni. Il ribellismo di Limonov, almeno all’epoca, non ha mai preoccupato le autorità sovietiche, a maggior ragione quando si è esplicitato nel nazionalbolscevismo. Le provocazioni di Limonov (che Carrère con il suo grande mestiere addirittura esaspera nel suo libro rendendole coinvolgenti per i cultori delle sensazioni forti) hanno ben poco a vedere con quel movimento di contestazione al sistema e liberazione delle menti e delle coscienze che è stato il dissenso – inakomyslie – il quale ha in definitiva contribuito per la sua parte al crollo del Partito-Stato totalitario».
Erano due strade troppo diverse?
«Gli autori come Limonov mal sopportano i codici interpersonali e pubblici di moralità, giustizia e rispetto per la cui libera espressione e inveramento hanno lottato e guadagnato, almeno per sé, e a caro prezzo, gli attivisti e i letterati del dissenso. I prevalenti intenti di tutta la letteratura del samizdat e dell’intera azione del dissenso erano propri di una ricostruzione specialmente etica – in verità e giustizia – del sistema sovietico ormai malato, nel quale «non si poteva continuare a vivere così».
Stando ancora agli anni ’10: hai tradotto grandi libri che narrano dalla periferia (Churramabad) e dal centro (Underground) lo sfaldamento dell’impero russo post sovietico. Sono questi autori – rispettivamente Andrej Volos e Vladimir Makanin – i nuovi libri classici per il nostro tempo della letteratura russa contemporanea?
«I due romanzi sono sicuramente i rispettivi capolavori dei due autori. Entrambi hanno avuto, per la versione italiana, una prima vita nell’ambito di un coraggioso Premio letterario internazionale, il Mosca-Città di Penne. Per la loro mole questi due libri erano stati pubblicati solo parzialmente, e parzialmente li avevo tradotti. Quando ho avuto modo, verso il 2011, di completare il lavoro, allora ho trovato anche l’Editore per entrambi. Mi sembra abbiano interessato sia la critica sia i lettori italiani, in modo secondo me soddisfacente, contribuendo a confermare la permanenza anche nella Russia postsovietica di una valida letteratura. Nella storia in divenire della civiltà letteraria della nuova Russia i due romanzi rappresentano già qualcosa di assai significativo. Di recente, nella Storia delle letteratura russa di Guido Carpi, egli ha definito Underground «il romanzo più notevole del 1998 e dell’intero decennio». L’ho sempre pensato anch’io».
A me, invece, l’accoglienza è parsa blanda.
«Forse da parte del pubblico. Ma io ricordo articoli molto significativi di Franco Cordelli, Armando Torno, Goffredo Fofi, Andrea Tarabbia; nei corsi universitari di letteratura russa o di traduzione letteraria il romanzo è stato talvolta riproposto come significativo ed esemplare».
La ricezione degli scrittori russi in Italia però è stata oggettivamente complicata.
«Il tema della ricezione del dissenso di area russa e della sua grande letteratura è proprio oggi attuale grazie alla ricerca universitaria in Italia e in Francia: ho presente l’Università di Firenze. Il tema è molto ampio e gli episodi innumerevoli».
Puoi raccontarmi episodi significativi del rapporto Russia-Occidente nell’ambito intellettuale?
«Te ne racconto due. Il primo si svolge a Roma, verso maggio 1975, presentazione nel salotto Garzanti della capitale dell’edizione italiana di “Kontinent – la rivista del dissenso – gli intellettuali e il potere sovietico”, fondata e diretta da Vladimir Maksimov. A fare gli onori di casa ai due o tre letterati russi di “Kontinent” presenti ci sono alcuni scrittori della scuderia Garzanti. Sinjavskij e la moglie vengono presentati al più illustre di questi il quale, con un largo cenno ospitale, li invita a mettersi comodi sprofondandosi intanto nell’unico divano in prossimità».
Chi era?
«Un signore che si rivolge a me – fungevo da interprete – e, con un certo tono tra noia e condiscendenza, dice: «Chieda… mi dicono che Sinjavskij abbia avuto qualche difficoltà a pubblicare i suoi libri in Unione Sovietica… i miei invece li pubblicano… non è strano?» Il professor Sinjavskij resta interdetto per questa stravagante versione delle «sue qualche difficoltà» (processo e sei anni di lavori forzati) e mormora appena «davvero… che strano». Ma io vedo e sento il suo alter ego, il galeotto-scrittore clandestino Abram Terz, il borsaiolo di Odessa, masticare un micidiale insulto del gergo dei campi di lavoro forzato. Traduco lo schivo professor Sinjavskij, ignoro il caustico Terz, e ci dedichiamo ad altri ospiti meno indifferenti. Il secondo aneddoto è di tutt’altro genere e riguarda la moglie dello scrittore, Marija Rozanova».
Una figura fondamentale per lui. È vero che amava l’Italia?
«Sì, con il marito, Marija ha sempre prediletto fra tutti i paesi d’Europa, compresa la Francia, proprio l’Italia. E io li ho spesso accompagnati in occasione di presentazioni, conferenze, interviste, ma anche per turismo nei luoghi d’arte. Ricordo Marija a Ravenna, nell’aprile 1979 in sant’Apollinare in Classe, rapita davanti al Buon Pastore dell’abside. Andrej e io ci eravamo dedicati ad altri affreschi. Stavamo per avvicinarci a lei, ma Andrej mi ha sussurrato: «Maša sta piangendo». Storica dell’arte, Marija non avrebbe mai osato sperare di poter vedere di persona certi tesori dell’arte universale che cercava di decifrare nelle scadenti riproduzioni dei suoi studi: l’estero era precluso ai cittadini sovietici ordinari. E ora, al cospetto di quel trionfo di ori e colori…»
Cosa ci possono raccontare dell’Italia e della Russia questi episodi?
«Che la cultura russa ha sempre aspirato nella sua storia a far parte della cultura europea e ad essere accettata per tale: questa e quella hanno tra le loro radici il cristianesimo e Bisanzio e hanno vissuto in piena sintonia di menti e cuori le grandiose stagioni culturali e letterarie dell’intero Ottocento in letteratura e poesia, o nella musica, in arte il primo Novecento (prima della catastrofe bolscevico-comunista). Le mortifere ideologie totalitarie del ’900 e due guerre mondiali per la Russia poi urss, e una guerra civile di sterminio (interna) protrattasi in varie forme, per settant’anni!, e la loro eredità nelle coscienze ha creato un fossato tra le due parti dell’Europa».
Sembra tu stia dicendo che a un certo punto l’Europa non è stata più in grado di leggere quello che accadeva in Russia.
«L’Europa ha chiuso gli occhi sulla vera natura del regime totalitario sovietico, come oggi sostanzialmente li chiude davanti a quella della pacifica (pacifica!) Cina. E già ha declassato in documenti CE, certo: burocratici, attinenti ai progetti culturali (l’ho visto con i miei occhi e non ci credevo), ha declassato dunque il passato totalitarismo sovietico dei paesi Est europei e Russia a autoritarismo. Uno dei due totalitarismi defunti viene declassato a autoritarismo e al totalitarismo oggi imperante, della stessa matrice di quello defunto, si assegnano importanti cariche internazionali! Ma di questo, forse, un’altra volta».
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