Il 7 giugno di quest’anno, Raul Gardini avrebbe compiuto 89 anni. Come sappiamo, è morto – un colpo di pistola alla testa – il 23 luglio 1993.
Ma chi era davvero Raul Gardini? O meglio, che tipo di uomo era? A questa domanda cerca di rispondere Il libro di Elena Stancanelli, Il tuffatore (La nave di Teseo). E la risposta è già in parte contenuta nel titolo.
Il riferimento è a Raffaele La Capria, al suo saggio Letteratura e salti mortali. “Un tuffo, scrive, è tanto più bello quanto più alto si svolge sulla tavola del trampolino. Ma più in alto si slancia il tuffatore sulla tavola, più la tavola per una legge fisica lo attira a sé. (…) C’è, come si vede, un collegamento molto stretto, immediato, tra la bellezza del tuffo e il pericolo che si corre”.
Gardini, che amava i tuffi nel senso proprio del termine – con la sua tecnica perfetta pare avesse conquistato la moglie Idina – insomma, sarebbe stato proprio questo, anche nel senso più ampio possibile, un tuffatore, un uomo attratto dall’estetica del rischio.
Il libro di Stancanelli non è una biografia, non è un saggio, non si può definire un libro d’inchiesta. Mescola la ricostruzione, in certi passaggi anche minuziosa, dell’avventura imprenditoriale di Gardini e della famiglia Ferruzzi, con considerazioni personali, ma anche con la storia parallela del nostro Paese.
Nessuno è protagonista da solo, servono un palco sul quale muoversi, comprimari, un pubblico. E ognuno di questi fattori influenza la direzione che prenderà la storia che il personaggio principale intende raccontare.
“Nel 1982 Raul Gardini licenziò il padre di Fabrizio De André” è la prima riga del libro. Un appunto che Stancanelli aveva scritto anni fa, incuriosita da questa breve coincidenza di destini di due personaggi, il cantautore e l’imprenditore, per i quali provava interesse fin da ragazzina.
Anni in cui Gardini era se non l’uomo più ricco e potente d’Italia, di certo il secondo dopo Gianni Agnelli, ma anche anni in cui “il salutismo coi suoi nuovi nemici: alcol, sigarette, cibi grassi”, persino la luce del sole, non esisteva ancora.
Si fumava perché faceva male me era anche dannatamente sexy, ci si abbronzava perché così si aveva un aspetto migliore, essere “bianchicci” era una roba da sfigati.
Un’epoca in cui – sembra incredibile a pensarci – si era ancora tutti innocenti. Si poteva mangiare la carne senza pensare agli allevamenti lager e ai mattatoi, e le bottigliette di plastica – oggi portatrici di apocalisse – venivano sfoggiate sui tavoli di ogni convegno, “le tenevano in mano gli attori e le attrici di Hollywood durante le interviste”.
Un’epoca che Gardini, secondo Stancanelli non solo incarnava, ma di cui era il campione: un fumatore eccezionale, amante della vela e, quindi, sempre abbronzatissimo, un maschio alpha, un patito della caccia, un uomo senza tormenti, rimorsi, sensi di colpa, lo sguardo rivolto al futuro nella convinzione che all’orizzonte null’altro ci fosse se non il progresso.
Un maschio romagnolo di quegli anni “come Federico Fellini“. Lo stesso genere di uomo, che adesso viene considerato un nemico “proprio come la plastica o la carne”.
Il tuffatore procede, tra molte divagazioni, in ordine piuttosto cronologico. L’infanzia, i genitori, il padre Ivan, un “romagnolo maschilista” che “parlava in dialetto con tutti e in italiano coi suoi cani”. Che “in macchina faceva sedere la Bruna dietro e teneva il cane sul sedile accanto al suo”.
E riporta aneddoti dal sapore di leggenda (Come capita a ogni personaggio larger than life, chiunque lo abbia frequentato ne ha un piccolo bouquet da sfoggiare nelle conversazioni). Alcune volte veri, altri no, altri ancora chissà.
Tra i non veri, quello relativo ai suoi occhi asimmetrici per via di una palpebra abbassata. Congeniti, non causati da un incidente di macchina. E falsa è anche la maledizione di Ca’ Dario, un palazzo affacciato sul Canal Grande, che Gardini acquistò nel 1985, fregandosene di tutti quelli che raccontavano le morti atroci dei proprietari precedenti.
Stancanelli si sofferma parecchio anche sugli aspetti più progressisti e visionari di Gardini. Per spiegare la sua concezione del capitalismo come al servizio (anche) dell’economia sociale, riporta lo stralcio di un’intervista con Sergio Zavoli, pubblicata sul Corriere della Sera nel maggio 1992: “Sono convinto che più una società cresce, e più sviluppa il perseguimento della ricchezza. Certo, non dovrà essere appannaggio di pochi. Altrimenti non è ricchezza, ma privilegio. La ricchezza, intesa come benessere diffuso, può diventare una condizione sociale Il privilegio, invece, ha per destino di restare una sorta di ruberia”.
Inoltre, per quanto contraddittoria potesse essere stata la sua posizione – Montedison possedeva poli petrolchimici e industrie chimiche altamente inquinanti come l’Acna, Gardini credeva nella chimica pulita e nella necessità di abbandonare il petrolio a favore di combustibili di origine vegetale. “Aveva previsto che l’inquinamento sarebbe diventato uno dei parametri. E aveva immaginato anche alcune soluzioni. Ma era troppo presto”, scrive Stancanelli.
Così come era troppo prematura la sua passione per il riciclo. Negli “anni del consumo, vorace e spensierato”, lui sognava di “ottenere carta dalle alghe che assediavano la laguna di Venezia”, scommetteva sul successo della plastica biodegradabile e, stampò (nel 1989) un intero numero del quotidiano Il Messaggero, di proprietà del Gruppo Ferruzzi, con un inchiostro sperimentale a base di olio di soia.
Un tuffatore, davvero. Ma fuori sincrono.