Res nullius

Apparentemente è giugno. Almeno su questa terrazza che si affaccia sul Rio de la Plata, a Montevideo. Invece siamo agli inizi di maggio. È come se il tempo si fosse preso la libertà di avanzare e retrocedere come più gli piace. Senza seguire i dettami apollinei del prima e del dopo, della forma ragionevole, dell’aspettativa che si realizza. Siamo come in un’attesa del tempo. Un tempo che si fa aspettare, come fosse una grande attrice che ritarda l’uscita, che ancora rivede il trucco.

Ma non lo sai, che, come ha detto uno dei vostri poeti, il tempo e il mare hanno di queste pause? Noi siamo in mezzo ad una realtà che sfuma nella finzione, nel sogno. Una realtà immaginata, questa è Montevideo.

Siamo seduti sotto un bell’ombrellone bianco e mi parla muovendo la mano. E ogni volta che fa questo gesto sembra che un mondo ripieghi e un altro emerga. Questa è la potenza della poesia, mi dico mentre guardo Alcides Alvàr bere un intruglio che ha offerto anche a me.

È rientrato da poco nel suo Paese. Avrà superato i settanta anni, ma sembra ancora un ragazzo senza pensieri. In cui il lobo frontale ancora non ha raggiunto l’età della ragione. È così che vivono i poeti, mi dico.

Me lo dicono tutti, fa ad un certo punto, dopo che gli ho detto della sua somiglianza con Ghiggia. L’eroe del Maracanazo.

E ti dico che per me è un onore. Un grande onore. Per gli uruguagi Ghiggia è il maestro della sparizione. Piccolo, veloce, si trovava sempre dove non doveva essere, mischiava abilità e invisibilità. Per questo fece il secondo gol ai brasiliani nel mondiale del ’50.

Beviamo ancora guardando il Rio de la Plata. Ma non dimentichi Schiaffino. Quando andò via un giornale, il quindicinale Peñarol di Montevideo titolò: «Se nos fué el Dios del Futbol. Irreparable perdida». Il dio del calcio è andato via. Perdita irreparabile. Nota come in quel irreparabile sia iscritto il destino del nostro popolo. Qui tutto è irreparabile. Non trova la giusta correzione. È un continuo danneggiare, anche microscopico, ma è la nostra natura, dice alla fine allargando le braccia.

La sua casa è in Rambla de la Republica del Perù al 1588. Una casa bianca con un bel portone di mattoni rossi, tenuta bene. Alvàr abita da solo, dopo la morte della moglie.

Pensa, che quando stavo a Milano passavo le serate con un tipografo milanista a parlare di Schiaffino. Lui l’aveva visto da ragazzo. Mi diceva che andare allo stadio era l’unico modo per stare vicino a suo padre, che lavorava come rappresentante. Ma la domenica era solo per loro. E Schiaffino era diventato ai suoi occhi un mago. Uno che sembrava assente, eppure riusciva a scovare il compagno più lontano, più nascosto, con lanci che avevano la precisione delle colonne doriche del Tempio della Concordia ad Agrigento. Un errore, come mi disse un ingegnere con cui visitai la Valle dei Templi dello 0,00001 millimetri. Ecco il margine di errore di Schiaffino era questo.

Non parla volentieri dell’esilio, ma ogni tanto, nel corso del dialogo esce qualcosa. Un episodio, un’inezia che apre spazi mirabili.

Ho vissuto a Parigi, Madrid, Barcellona, Milano e Roma. Uno può dire: be’ non è male. Certo sono città meravigliose, perfino inconcepibili se viste da qui. Eppure hanno, tutte un senso di eccessivo ordine. Una quadratura del cerchio che per me è come un assillo. Un’idea della quale non puoi disfarti. Perché durante l’infanzia e la gioventù hai vissuto l’ampiezza dell’attesa, la pausa che entra nelle passioni, che le rende più desiderabili. Hai camminato per strade che non portano a niente. In Occidente invece tutto porta da qualche parte. Per questo voi vi muovete per traguardi, noi per abbagli. Questo nostro modo di procedere che non trovava corrispondenza in Europa, mi sfrecciava davanti come un treno in corsa, e io non riuscivo mai a salirci sopra. Non era malinconia, né nostalgia, ma un cambio troppo doloroso di sguardo. Io non riesco a vedere il mondo senza quella riserva di errori, di malintesi. L’equivoco che fa saltare l’affare, che ti fa trovare all’Odeon mentre la tua donna ti aspetta davanti al Rialto.

In questo margine di fraintendimento vedo l’espressione di un cuore non ancora malato. Di un infarto di là da venire. Una forma di sanità che prolunga la vita. Almeno finché è possibile. Ma lì, in Occidente questa minuscola incuria, è bandita. Gli appuntamenti sono fissati e perfetti, il tempo naviga sempre in orario. Il bordo dell’esistenza ha qualcosa di eccessivamente rassicurante. E questo è come un sicario che ti aspetta all’angolo di casa per farti fuori.

Ricordo un giorno a Roma, sulla terrazza di un hotel proprio di fronte al Colosseo. Ero stato invitato per presentare il mio ultimo libro, non ricordo se Il signore che cammina male, o Le cose di nessuno, insomma, ero insieme ad alcuni amici italiani che parlavano delle meraviglie di Roma, e indicavano il Colosseo. Io li guardavo, erano due persone di grande bontà e intelligenza. A un certo punto li fermai. Il Colosseo non mi basta, anche tutti i fori romani non mi bastano, a riempire i discorsi del cuore. Ecco, disse allora girandosi verso di me, questo è il punto. Non si sfugge mai dai discorsi che hanno dato forma al cuore. E questi discorsi sono quelli che hai sentito da bambino, e poi da ragazzo, che senti parlare fra di loro la notte, prima di addormentarti. Allora te ne puoi stare in silenzio, e li ascolti. Parlano di lunghe corse, di pomeriggi senza fiato, di treni che passano sempre di sorpresa, di spiagge che hanno l’odore di tua madre, dell’ombra nelle case assolate, di una ragazza che ti ha guardato una sera che andavi via. E allora cosa puoi fare? Non lo sai? Telo dico io: puoi solo piangere. Non c’è altro da fare. Versare lacrime, girarsi nel letto e asciugarsi alla federa del cuscino.

Porta baffi esigui, che coprono il labbro superiore. Indossa una camicia a maniche corte, tutta quadri rossi e blu, e un pantalone leggero quasi bianco. Un bianco che ancora non lo è del tutto ma che vorrebbe esserlo.

Immagina, riprende, sei su una strada di campagna. Stai facendo una passeggiata con i tuoi amici, o con la tua donna. Magari stai ritornando da un picnic. Ti senti leggero e svagato. È stata una giornata memorabile. Mentre cammini vedi una pietra che ti piace. Ti piace la forma, il colore, allora ti abbassi e la prendi. Te la porti vicino agli occhi e la metti in tasca.

Mi guarda perché sta per farmi una domanda. Sai perché puoi impadronirti di una pietra su una strada di campagna? Francamente è una domanda che non mi sono mai posto. Te lo dico io, riprende. Perché le pietre che si trovano nei campi, sulle stradine, o dove vuoi, sono res nullius. Cioè cose di nessuno. E quindi essendo cose di nessuno sono di tutti. L’hanno inventata i romani questa regola. Ed è proprio così che vive chiunque sia lontano dalla sua città. Come una cosa di nessuno. Non ha una direzione, non ha uno scopo, inizia a fare pensieri sconsiderati, incompatibili con i tuoi pensieri di un tempo. È una cosa che chiunque può prendere e trasportare in un’altra città, in un altro paese. In un altro mondo.

Alcides Alvàr si alza e si avvicina alla ringhiera. Il passo è spedito. Poi si gira e mi dice di raggiungerlo. La frenesia ha rapito desideri, dice, poi s’infila una mano in tasca e prende un foglietto di carta e me lo passa. Lo apro, è bianco, non c’è scritto niente. Ma io per questo te l’ho dato, dice allora Alvàr, perché tu lo conservi. Date troppa importanza alle parole scritte sui fogli e troppa poca ai fogli bianchi.