La settima vittima dell’attentato di via D’Amelio

Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita. Tutti hanno paura, ma io l’unica cosa di cui ho paura è che lo Stato mafioso vincerà e quei poveri scemi che combattono contro i mulini a vento saranno uccisi. Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici. La mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci. Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta”.

È il luglio del 1992. In un appartamento di Roma, una ragazzina di 17 anni, di nome Rita Atria, si dispera: Paolo Borsellino, il pm che amava come un padre, è stato ucciso in un attentato. E adesso lei si sente persa, sola a combattere contro la mafia. Rita è una testimone di giustizia, una delle prime d’Italia. Ma è anche la vittima di un sistema fallato: una settimana dopo la morte di Borsellino, la ragazzina morirà cadendo da una finestra al settimo piano della sua abitazione.

Si è uccisa“, diranno tutti. Ma è un suicidio strano, i cui punti oscuri sono ricostruiti nel libro Io sono Rita – Rita Atria: la settima vittima di via D’Amelio, edito dalla Casa editrice Marotta & Cafiero.

Un’inchiesta della giornalista del Tg1 Giovanna Cucè, di Graziella Proto, attivista antimafia e fondatrice della rivista Casablanca / Le siciliane, e di Nadia Furnari, vicepresidente dell’Associazione antimafia Rita Atria.

Un piccolo volume che, attraverso la raccolta di documenti rivenuti nei tribunali e nelle procure, ricostruisce la storia di questa ragazzina coraggiosa che seppe mettersi contro la sua famiglia e la mafia del suo paese, Partanna, nella valle del Belice, in Sicilia.

Figlia del boss don Vito Atria, ucciso il 18 novembre 1985 in un regolamento di conti. Sua sorella Annamaria si sposa con un militare e va a vivere lontano dalla Sicilia. Rita resta con sua madre e suo fratello, Nicola, sposato e con una figlia, al quale la ragazza è legatissima. Ma anche lui viene ucciso, il 24 giugno del 1991. Sua moglie, che ha visto i killer, decide di collaborare con la giustizia. Rita segue il suo esempio, anche se per lei è tutto più difficile: è ancora minorenne.

Sua madre, però, le ha preso in affitto una stanza a Sciacca, così da permetterle di studiare. Rita ne approfitta. “Aria un po’ timida, il cuore gonfio di dolore e di coraggio, un giorno prende l’autobus per Sciacca come se dovesse andare a scuola, ma invece di andare all’Alberghiero, va a parlare con i carabinieri, vuole essere ascoltata perché lei è una Atria e le cose le sa”, si legge nel libro.

Il passo dalla caserma alla procura di Sciacca è breve. Rita parla, rivive i discorsi sentiti a casa da suo padre e che nel tempo ha interpretato grazie alle spiegazioni del fratello, del fidanzato e degli “amici”. E poco conta se sua madre l’ha messa in guardia: “Rita, non t’immischiare, non fare fesserie”. La ragazza è determinata a fare giustizia. Riempie verbali, fa dichiarazioni, racconta omicidi, svela affari.

È il cinque novembre del 1991. Ad appena diciassette anni, Rita Atria entra nel sistema di protezione per i testimoni di giustizia. A proteggerla e a sostenerla c’è Paolo Borsellino, che diventa per lei come un padre.

La ragazzina inizia una vita clandestina a Roma, sotto falso nome. Borsellino cerca anche di farle riallacciare i rapporti con sua madre. Rita la supplica di lasciare Partanna, ma la donna è irremovibile: “Tu devi ritornare a casa, perché fin quando stai con me non corri nessun rischio, non c’è pericolo”, le dice.

A Roma, Rita Atria viene affidata all’Alto commissario, una figura istituita all’epoca nell’ambito della lotta alla mafia. Incredibilmente, chi la gestisce non tiene conto che si tratta di una minorenne.

La ragazzina viene lasciata sola. All’inizio sta in una casa insieme alla moglie di suo fratello ucciso, anche lei diventata testimone di giustizia. Ma Rita vuole andare a vivere da sola, lo chiede ufficialmente nel mese di maggio. Verrà accontentata soltanto dopo la strage di via d’Amelio. Una settimana dopo, il 26 luglio del 1992, morirà in circostanze misteriose.

Non ci sono prove che si sia suicidata”, spiega Nadia Furnari. “Troppe le stranezze sul suo caso”, racconta. “Nella nuova casa Rita ha vissuto tre giorni. Eppure, dopo ch’è morta, nell’appartamento non sono state trovate impronte digitali, neanche le sue. Invece, in camera da letto c’era la sua carta di identità, con il suo nome e cognome vero e gli indirizzi dei luoghi dove aveva abitato fino a quel momento. Il che è difficile da spiegare, dal momento che era una testimone di giustizia che avrebbe dovuto vivere sotto falso nome”.

Ma ci sono altri dettagli che non tornano, come il fatto che nella scuola dove era stata iscritta i docenti sapessero chi era. Quando Rita chiede di andare a fare visita a sua sorella a Milano, invece di organizzare un viaggio sicuro e protetto, le danno i soldi per pagarsi il biglietto del treno e partire da sola.

“Ricordo che stiamo parlando di una minorenne, oltre che di una testimone di giustizia che rischiava la vita”, dice Nadia Furnari, che continua, “nessuno ha indagato sul presunto suicidio di Rita. Anche se non si spiega come abbia fatto la ragazzina a buttarsi giù dalla finestra, visto che la serranda era semichiusa. Nell’appartamento è stato trovato un orologio maschile, ma nessuno lo ha inserito tra i reperti. A chi apparteneva? Perché non è stato prelevato?”.

Per non parlare delle tracce di alcol trovate nel sangue di Rita dopo la sua morte: “Lei non beveva, e in casa non sono state trovati alcolici”, dice Furnari che, dopo la pubblicazione del libro, insieme alla sorella di Rita Atria, Anna Maria Rita Atria, ha depositato un esposto presso la Procura di Roma per chiedere la riapertura delle indagini sulla morte della ragazzina.

Forse, dopo trent’anni, è ora di fare chiarezza e darle giustizia.