Santoro e Avola: debole vento dell’epica

Il dramma di Giovanni Falcone era di essere contemporaneamente Ulisse e Ettore senza poter essere Achille, di non aver mai abbandonato Itaca per poterne fare ritorno, perennemente assiso sopra le mura di Troia a studiare una difesa impossibile, perennemente a testa in su a scrutare crepe nella difesa di un muro impossibile da scalare, perché lui era Troia e la Grecia, sapeva tutto dell’una e dell’altra. Avrebbe inchiodato a una croce Maurizio Avola e una a una avrebbe scarnificato le sue verità, riducendole a ossa abbandonate dalle fiere sulla rena di una spiaggia: sbranate dal vento e dal sale, lucidate dal sole come i resti di mostri preistorici. L’avrebbe lasciato parlare, avrebbe fumato sigarette a migliaia, e all’ultima gli avrebbe sorriso, accartocciato il pacchetto l’avrebbe buttato nel cestino, «Signor Avola, adesso mi dica la verità, quella vera». Era liberatorio crollare davanti a lui, rivelarsi per quello che si era e farsi riportare al banco, ringraziare per il voto basso. Avesse raccontato a lui le sue verità, ne sarebbe uscito un libro col dipinto del pentito Avola. E pure Giuda se si fosse trovato davanti a Falcone, dopo aver parlato di disegno divino, di necessarietà del proprio tradimento, di eroismo nell’accettare il ruolo, avrebbe riconosciuto nel denaro la sua collaborazione con la Legge dell’Impero.

Michele Santoro non ce l’ha la capacità dell’inquisizione gentile di Falcone né possiede le strutture narrative di Omero, da Nient’altro che la verità (Marsilio, 400 pp., 18 euro) non escono fuori due Ciclopi, spuntano due figure minuscole nonostante la mole spropositata delle azioni dei personaggi. Sono vite parallele che avrebbero avuto bisogno di Plutarco per uscirne bene, non ce la fanno, non ce la possono fare. Maurizio Avola snocciola un omicidio dietro l’altro convinto che il loro numero determini la sua grandezza criminale, e più ne racconta e più si rimpicciolisce: è pauroso il vuoto che ogni suo spargimento di sangue residua. I suoi omicidi non smuovono alcun tipo di sentimento, sono storie truci, anecoiche: nessun suono. Avola prova a raccontarcela come fanno tutti gli ex criminali, e Santoro prova a far finta di non bersela come fanno tutti quelli che hanno scritto pagine importantissime del giornalismo. È una corsa lunga 400 pagine, su due piste parallele, a raccontarcela, dall’una e dall’altra parte, a costruire due figure il più possibile edificanti, due persone il più aderenti possibili all’idea del personaggio che i due hanno di se stessi. L’epica è una carne che, nel bene e nel male, dovrebbe ammantare i corpi, alla fine del racconto che parte sulle piste del western, del mafia drama, e termina nella serie b dei poliziotteschi minori. Perché Santoro non è né Sergio Leone né Clint Eastwood, e Maurizio Avola non è né Tommaso Buscetta né Totuccio Contorno, e per quanto a ogni passo si mettano in evidenza i suoi occhi di ghiaccio non è mai somigliato a Coriolano della Floresta che si pente per continuare la guerra, da ultimo samurai scappa e ammazza 18 mafiosi per vendicare il proprio signore Stefano Bontate. Maurizio Avola ci prova in ogni modo ad aumentarsi di grado, a vestire di romanticismo le proprie gesta: si confessa uccisore di Borsellino dopo essersene dimenticato per più di un ventennio; svela il colpevole della morte di Enrico Mattei; ne avesse l’età confesserebbe pure l’omicidio di Alessandro Magno pur di non finire nel dimenticatoio. Perché è quella la morte che gli fa paura: non fare notizia nonostante i suoi ottanta ammazzamenti, passare per quello che è stato, un sicario super efficiente, ma quello e soltanto quello. Un esecutore. Una comparsa o poco più nel mondo criminale.

E pure Michele Santoro sembra aver paura che le sue memorabili stagioni nell’informazione finiscano nell’oblio o, peggio, che vengano interpretate male e che lui venga ricordato come uno dei padri del giustizialismo. Che in un certo senso gli vengano attribuiti i Toninelli, i Davigo, come unico risultato di uno sputtanamento della classe politica nata dopo la prima repubblica. Nient’altro che la verità, forse avrebbe voluto essere la verità di Santoro secondo Santoro e la verità di Avola raccontata a Santoro da Avola: tutto immerso nei paradigmi di un’epopea, che però non è decollata. Il racconto è rimasto piatto, i personaggi scialbi. Il mare mosso si vive solo nelle polemiche televisive, negli accordi e nei disaccordi delle ricostruzioni di ognuno. Ma né su Santoro né su Avola, secondo i rispettivi intendimenti, si alza il vento dell’epica dal punto di vista letterario. Giovanni Falcone non sarebbe neppure arrivato alla fine della lettura che dovrebbe disvelare 30 anni di misteri, avrebbe già capito tutto a pagina 56, fumato l’ultima sigaretta, accartocciato il pacchetto, buttato nel cestino. Avrebbe aperto il suo sorriso indimenticabile su un volto di filosofo e un nuovo pacchetto di sigarette e si sarebbe di nuovo messo un po’ sopra e un po’ sotto le mura di Troia: ad alzare le difese e a inchiodare assi di legno al gigantesco cavallo che stava costruendo.